«L’istituto per la regolazione degli orologi»
Tempo della pendola
Einaudi scopre Ahmet Hamdi Tanpinar, padre della letteratura turca del Novecento. Il tempo degli uomini ha smesso di essere in relazione con quello degli orologi. Ossia con quello della realtà
Probabilmente, misconosciuta, questo “L’istituto per la regolazione degli orologi” (Einaudi, pp. 450 – 22,00 euro – Traduzione di Fabio Salomoni) è certo una delle grandi opere eccentriche del Novecento, piena di allusioni e influenze, ma cui viene data una veste personalissima e tutta tragicomica, metaforica nell’affrontare con lievità il tema terribile dell’uomo e del passare del tempo, avvincente per il lettore, piena di storie come è, e piena di una curiosa filosofia scientifica: «L’orologio è lo spazio, e il suo movimento è il tempo e la sua regolazione è l’uomo: ciò dimostra che nell’uomo il tempo e lo spazio coesistono», come afferma uno dei maestri del buon protagonista e narratore Hayri Irdal, l’anziano orologiaio sapienziale Nuri Efendi, con echi quasi einstaniani.
Basterebbe questa citazione a far capire come questo romanzo sia tutto una scoperta, che per certi versi potrebbe quasi sembrare opera di certa fantasia ebraica centro-est europea, e invece, scritto da Ahmet Hamdi Tanpinar, arriva dalla Turchia d’inizio Novecento della cui letteratura moderna viene considerato il padre, come afferma il Nobel Orhan Pamuk, che lo ha indicato al suo editore italiano, Einaudi, per una traduzione. Questo scrittore, nato a Istanbul nel 1901, dove muore d’infarto nel 1962, è stato insegnante e poi parlamentare turco, prima di dedicarsi alla scrittura, soprattutto di poesie e racconti, mentre il suo capolavoro, pubblicato a puntate nel 1954, arrivò in libreria solo postumo.
Enti inutili che si ingigantiscano e aspirano risorse, personaggi di ogni risma, a cominciare dai soliti profittatori, specie se possono usufruire delle qualità altrui, impostori e bugiardi, furbi e presuntuosi, oltre ai soliti innocenti (che potrebbero ricordare alla lontana il buon Svejk di Hasek) formano la moltitudine di figure straordinarie e particolari che non potranno non far venire in mente, fatte le debite differenze coll’impero ottomano di metà Ottocento, la nostra povera Italia d’oggi, ma con molta meno capacità di fantasia. La storia, la miriade di storie e personaggi hanno al centro l’idea megalomane e futile, ma molto redditizia, di Halit il regolatore, che dell’Istituto fa un importante e pletorico ente dove lavora il nostro Irdal. Storia che diventa, letterariamente, anche una bella metafora orwelliana del controllo totale impossibile, della ricerca di un ordine assoluto, degli sforzi di ogni regime totalitario, inevitabilmente folli e pieni di falle.
La madre di Irdal chiamava “il santo” quella pendola dallo spirito assolutamente indipendente che troneggiava nella sua casa da ragazzo, non tollerando «né riparazioni, né regolazioni; incarnava un tempo speciale, lontano dagli uomini» mettendosi a suonare all’improvviso e poi per mesi lasciando sentire solo l’oscillare del suo pendolo. È tutto lì, l’inizio, la passione assoluta per gli orologi del nostro, che condiziona la sua vita, si fa ossessione per il tempo, sino a quando, settantenne, decide di scrivere una sorta di autobiografia, le sue avventure, di vita e esistenziali. E scrive questo libro surreale e fantastico, pur nel suo parlarci di una vita quotidiana, ma in cui accadono le cose più incredibili, che cambiano il destino del protagonista, ora regalandogli impreviste e grandi fortune e notorietà internazionale, ora precipitandolo indietro, spesso solo per come lui stesso agisce, per una parola che gli sfugge su cui, ricamando, viene costruita una menzogna che lo distrugge. Con il tempo sono infatti le parole il vero protagonista di quest’opera particolare, modernissima e fascinosa per una sua aria come fuori dal tempo. Anche il racconto, la stupefacente scrittura di Tanpinar, ambisce a una sorta di controllo che è come gli sfuggisse di mano, si facesse virtuale, pura storia narrata che però esce da ogni regola, come l’esistenza stessa di Irdal, tanto che cercar di riassumere questo romanzo è praticamente impossibile. Basti ricordare la vicenda del dottor Ramiz, che vuol portare la psicanalisi tra i turchi e tiene una conferenza sul valore dei sogni in cui tutti si addormentano uno dopo l’altro, oratore compreso. Oppure quella delle vecchia e ricchissima zia del protagonista, che tratta tutti malissimo, mentre aspettano che muoia. E quando questo accade, all’improvviso, mentre sta per venir inumata al cimitero, eccola riaversi dal suo sonno letargico e intimare ai becchini, co me nulla fosse, che la riportino subito a casa. E si parla anche di cinema e di una passione per le sue illusioni e storie, tanto da convincersi di vivere in un film dove tutto è possibile.
Il problema è che, quando gli uomini non hanno più calcolato il tempo col sole, ma con l’orologio, si sono «allontanati dalla natura. Hanno cominciato a calcolare un tempo indipendente», che appunto non può essere lasciato a se tesso, in balia degli orologi, ma va regolato, controllando tutto quanto ha a che fare con gli orologi stessi, da quelli di strada a quelli venduti nei negozi e così via, in un crescendo di tentativi di arrivare ovunque, della cui inutilità il nostro Irdal è ben conscio. Il tutto nelle atmosfere, suggestioni e vicende dell’Impero ottomano di metà Ottocento, raccontate con una vena di malinconia nostalgica. «La storia dell’Arte, in fondo, è la storia di quei miliardi di tentativi – per loro stessa natura fallimentari – di dare una casa al tempo e allo spazio pur lasciandoli nella loro abissale infinitezza», come annota Andrea Bajani in una sua acuta nota introduttiva alla traduzione italiana.