Un libro pubblicato da Gaffi
Storia di una visione
La colpa, il perdono, la perdita e il "vedere oltre" la realtà che ci è contemporanea: non perdetevi «Spregamore», il nuovo bellissimo romanzo di Paolo Del Colle
«Se non esistono due mondi, due parole diverse per una stessa persona, non esiste un aldilà» -, credo che il rinforzarsi di un simile convincimento, connesso soprattutto alla recentissima esperienza di vita dello scrittore, giovi a rendere conto, in maniera fulminea, della disposizione che ha guidato Paolo Del Colle nella fluviale scrittura di Spregamore (Gaffi, 2014, 140 pagine, 14 Euro) che, senza timore di sbagliare, a tredici anni dal cristallino esordio con Le ragazze dell’Eur (2001), possiamo definire il suo finale libro de religione (e vedremo tra poco perché). E, senza soluzione di continuità, sulla scia di quell’esordio, Del Colle in quest’ultima sofferta prova narrativa, non fa altro che acuire (come in un estenuante esercizio di serrata appercezione) quel suo particolare «sguardo gettato sulle cose e sulla vita». Torna, come fosse la sola cosa possibile, a farsi preda di se stesso; a misurare lo scarto, la sconcertante incoincidenza della vita (nella sua denudata essenza) con il nostro vissuto quotidiano; a sporcarsi, insomma, le mani con le impurità dell’esistenza.
Il Paolo di Spregamore si aggira ancora all’interno del medesimo microcosmo romano dell’Eur (casa, lavoro, frequentazioni notturne), fino al limite estremo di esso dove si trova la nuova casa del padre, adesso morto. A raccontarsi è un «figlio dimezzato», «invecchiato adolescente», schiacciato da non pochi condizionamenti, e che ha finito per pagare sulla sua pelle (e a caro prezzo) l’implodere dei conflitti familiari e la conseguente separazione dei genitori: diviso, nell’amore, tra un padre gaudente e sciupafemmine e una madre rassegnata e in attesa non si sa più di cosa. Quasi riflesso patologico di quella incompiutezza, di quel male di fondo che non dà dolore, una cronica emicrania. Come per la madre, del resto, la cui lucidità “negativa” (consistente nel vedere esclusivamente il brutto nella vita) si è infine tramutata in «malattia biologica», in demenza. Si prende cura di lei mentre vede la malattia trasformarla, renderla, ogni giorno che passa, sempre più estranea a se stessa e agli altri (pagine, quelle dedicate alla madre, che, per intensità, ci hanno riportato a Genealogia di un padre di Valerio Magrelli). Per dire di quella incongruenza, Paolo annota meticolosamente in due agende di colore diverso, una blu e una rossa, le osservazioni giornaliere sulle feci del gatto e sulle condizioni di salute della madre (puri bollettini di dati fisiologici), due calendari che non esistono al di fuori di quelle pagine: alla ricerca di un referto oggettivo; trascrizioni che negando ogni verità («Non c’è nessuna verità nelle mie due agende. Tutto è immobile, il silenzio assoluto») ne segnano, al contempo, la distanza. A voler chiarire a se stesso la non meno paradossale realtà per cui pur amando morbosamente la vita non riusciamo a starci dentro, a essere davvero in sintonia con essa: invocandola e surrogandola, al più, nella rabbiosa e sbigottita disperazione di non appartenerle.
È evidentissimo dunque che Spregamore si configuri come romanzo della perdita («tutto andrà a giustificare il tempo rimasto da consumare da qualche altra parte»). Ma c’è dell’altro: è, insieme, il romanzo d’uno scrutare che rasenta la visionarietà. Paolo insegue sempre un’amplificazione possibile che lo astragga dal tempo e dalle cose e lo induca (davvero) a “vedere”. Così che l’estinzione, l’esperienza del distacco, somiglia per lui sempre più a un uscire da sé o, in perfetta e simmetrica antitesi, a un ferreo ritrarsi nel suo corpo (fino a lambire, della vita, il nocciolo); dentro il saldo diaframma che esso rappresenta rispetto al fuori, a tutto il resto (incubo, sogno, visione, miracolo, grazia di Dio compresa). Il tentativo di intercettare l’invisibile lo spinge a invocare i morti, a parlare con loro (si tratti del padre o del fratello Lorenzo, nato morto). Anzi, il fascio di digressioni dell’io narrante gravita infine sempre intorno al presentire e riconoscere il nebuloso coesistere, come si diceva in apertura, di due mondi attigui eppure separati: il visibile e l’invisibile, l’aldiquà e l’aldilà («una dimensione semplicemente più grande ma invisibile»). Cercando di addentrarsi, anzitempo, sul crinale di quella «linea che separa i vivi dai morti». Spartiacque che, a un certo punto dell’esistenza, è dato riconoscere, tra ciò che è soggetto al tempo e ciò che invece sta fuori dalla cronologia, perché continuamente presente a se stesso mentre accade.
Si tratta comunque di un aldilà che si «avvantaggia» già in questa vita, come andava scrivendo sin dai tempi delle Ragazze dell’Eur. Fedele a quella dialettica tra biologia e tensione metafisica che innerva e consuma ogni pagina di Paolo Del Colle. Peraltro, sia detto en passant, quello dello scivolare di una dimensione nell’altra, la petizione dubbiosa sul confine tra l’essere e il non-essere (insieme a tutto ciò che implica lo stare dentro a questo passaggio), è luogo poetico abbastanza presente nella letteratura italiana degli ultimi anni: penso a taluni libri di Giovanni Mariotti (Il bene che viene dai morti e L’amore lungo), ai recenti romanzi brevi di Antonio Moresco (La lucina e Favola d’amore), oppure ai versi di Tersa morte di Mario Benedetti (per stare alla poesia).
Epperò nel caso specifico di Del Colle il tema si complica di ulteriori implicazioni: la sua religiosità, per esempio, si esprime nei modi d’una inossidabile fedeltà verso un senso di irragionevole speranza tenuta giovane e acerba («la speranza è una virtù sempre bambina»); che contempla il miracolo, pur nella certezza di un Dio che, per lui, non esiste («conciliai quello che per me era un evidente intervento miracoloso (…) con il continuare a non credere a un qualsiasi Dio»), di un amore divino vissuto come rovello necessario, a prescindere. Entro una fede che rimane nell’alveo del potenziale e del possibile, il solo credo assoluto e incondizionato risulta essere quello di una completa dedizione alle ragioni della vita, se a un certo punto del romanzo scrive: «la vita solo la vita abbiamo sempre qui, davanti agli occhi, fino all’ultimo sguardo o respiro è lei che dobbiamo rispettare, che possiamo conoscere». Di questa bulimia testimonia la scrittura fattasi qui più convulsa e veloce (tuttavia sempre sorvegliatissima), rispetto alla più armonica e distesa orchestrazione (frutto di un certosino gioco a sottrarre), apprezzata nel primo libro, dove il suo stile aveva raggiunto una naturalezza e una grazia assai rare. E di cui Spregamore si dà, con straordinaria coerenza, come una sorta di postumo e compresso incunabolo.
Ma quale sia l’utopia esistenziale inseguita da Paolo Del Colle sin dai tempi della suite di Le ragazze dell’Eur e adesso arpeggiata in maggiore in questo teso e ultimativo movimento di Spregamore, forse lo comprendiamo meglio se riandiamo alle pagine finali di quell’avvio narrativo. E in modo particolare a questo passaggio: «Accendo una sigaretta, aspetto che il fumo diventi un rigo bianco, un filo sottile gettato in alto per ricucire l’aldilà e l’aldiquà, l’età e i ricordi, la testa e l’aura dell’emicrania, i corpi martoriati e l’altra o propria carne di cui sono pure tenacemente innamorati, suturandoli come le due labbra di una ferita». Nulla di più, nulla di meno: inseguire la scia di quel sottile filo di fumo, suturare la propria e l’altrui ferita tra aldiquà e aldilà, vera vita e sua percezione, il visibile e l’invisibile.