Una grande personale alla Fondazione Roma
Rockwell senza storia
Nelle illustrazioni gioiose e consolanti di Norman Rockwell scorre il lato più effimero del sogno americano: quello di un Novecento senza drammi e, in ultima analisi, senza storia. In una parola: finto
A quasi quaranta anni dalla morte, la Fondazione Roma mette in scena nella sua sede di palazzo Sciarra in via Minghetti una mostra dedicata a Norman Rockwell (1894-1978), uno dei più noti illustratori del Novecento, testimone e cantore del mito di un’America generosa e opulenta di cui ha contributo ad imporre il primato nell’immaginario dell’Occidente europeo. Una personale ben impaginata e corposa, la prima allestita in Italia, che ripercorre l’intero arco della sua fortunata carriera. Ma curiosamente, ribaltando le intenzioni dei curatori, ne ridimensiona e circoscrive il talento. Consegnandoci il ritratto a tutto tondo di un grande disegnatore e di un personaggio fuori del comune che non riuscì mai davvero a legittimare l’ambizione di essere un grande pittore, troppo immedesimato com’era nel ruolo di moralista e menestrello delle virtù dell’americano qualunque, che si era ritagliato per misurarsi con l’ambiguità del mondo, con il mistero sfuggente, la cifra trasgressiva dell’arte. Consapevole o meno insomma un falsario che spaccia monete contraffatte.
Come è successo a molti, non solo negli Stati Uniti, in quegli anni che attraversano i cupi, sanguinosi burroni del «secolo breve», per precipitare nella ottusa voragine manichea della guerra fredda.
Basta percorrere lo sfizioso corridoio nel quale i registi di questa rivisitazione hanno allineato le oltre trecento copertine sfornate per il settimanale Saturday Evening Post in quarant’anni di collaborazione, per rendersene conto. Guardi una vignetta del ‘21 e resti incantato da quei tre monelli scamiciati e scomposti insieme a un cagnetto randagio, in fuga da chissà chi dopo aver infranto un divieto di balneazione: Vietato nuotare ci spiega il titolo. Dentro ti resta un sapore gustoso di quando leggevi le avventure di Tom Sayer. Poi posi gli occhi su altre paginate e scopri le stesse facce rubizze di ragazzini, birichini, innocenti e spavaldi, gli stessi cagnolini, messi in posa per altre scenette esemplari: abbracciati a qualche bimbetta su una panchina, chini sul libri a preparare una lezione, stesi a letto a ricevere la buonanotte da genitori solerti, a tavola a recitar la preghiera accanto a nonnini e nonnette dallo sguardo amorevole, a cantar inni vicini a Babbi Natale panciuti e sorridenti. E ti rendi conto che qualcosa non funziona. Che quell’universo di infinite ripetizioni è posticcio e stucchevole, che in un mondo così tenero e dolciastro non ci vivresti neanche morto, ci moriresti di noia o di diabete.
Una vita da favola? Macché, a dar sapore e senso alle fiabe c’è sempre o quasi una strega, un gigante o un lupo in agguato, una sorella o una matrigna cattiva. Un film alla Frank Capra? Ma no, in Capra l’ottimismo del lieto fine è preparato da squarci di caos, di conflitti, da un coro di povertà e di miseria. Piuttosto un nastro che si riavvolge in continuazione di gesti e sorrisi sempre eguali, simulati da attori, di strade e case da set, come nel Truman Show di Peter Weir. Un teatro di rimozioni e buoni sentimenti per tenere a bada e a distanza, esorcizzare quel che accade davvero. Occhio alle date. Sulle cover di Norman Rockwell scorrono gli Anni Trenta, ma non c’è traccia della grande depressione, i disoccupati, i vagabondi, i senza tetto, la fame. Arrivano gli Anni Quaranta, Hitler, lo sterminio degli ebrei, la seconda guerra mondiale, l’atomica su Hiroshima e Nagasaki, ma in copertina scorrono gli stessi Babbi Natale, le stesse sagome di donnine che cuciono o fanno la calza, gli stessi bambini che fanno le smorfie. A evocare i pericoli, la paura, la tragedia che incombe e devasta il mondo solo un paio di vignette di gente in attesa in un bar, le orecchie incollate a una radiolina ad ascoltare le notizie dal fronte.
Nel sogno americano, un codificato fai da te di speranza e tenacia, dove sulla carta c’è posto per tutti, non c’è posto per l’incubo, per il dolore, neppure per le armi, che negli Usa si vendevano e circolavano già allora come elettrodomestici. Almeno secondo Rockwell, che di quell’American Dream ci offre la versione più estrema. Evidentemente condivisa dai lettori del Saturday Evening che ne consacrarono poco più che ventenne la scalata verso un successo da superstar. E dagli editori che ne cavalcarono la popolarità. È un mondo alla Parmenide, sottratto alla contraddizione, immobile, protetto dalla forza dell’accadimento.
L’esatto opposto di quello immortalato dagli illustratori di casa nostra, come Walter Molino, che in quegli stessi anni sulla Domenica del Corriere disegnava gli eventi da copertina, esaltando con tratti marcati da fumettista puro e concitato stile eracliteo storie grandi o piccole di cronaca rosa o nera: disastri aerei, rapine, salvataggi miracolosi, tragedie avvenute o sventate, matrimoni di vip. Nelle rare volte in cui s’è cimentato con notizie e fatti di questo tipo Rockwell ha sempre congelato il movimento, il rischio, la tensione, il terrore in una messa in posa programmata: una bimba cade nel fiume, un boy scout la salva e lui risolve la scena in un abbraccio di commozione a tragedia risolta. Non dipinge mai il durante ma il dopo. Mai il presente, ma un futuro ideale, possibile. Anche a costo di sfiorare in questa operazione di astrazione e sottrazione il ridicolo dello stereotipo, delle realtà ridotta a sermone.
Come nei manifesti sulle quattro libertà, che fanno da pilastro alla società americana egli furono commissionati nell’immediato dopoguerra. La libertà dalla fame? Riassunta da una tavole imbandita su cui una mamma qualunque poggia il piatto di un tacchino arrostito.La libertà dalla paura? Una coppia di genitori che veglia sul sonno di due bimbetti cui ha dato la buona notte.
Il senno del poi, con cui oggi inesorabilmente rileggiamo questo suo bisogno di rassicurare e rassicurarci, non lo aiuta a sottrarsi al dolciastro profumo da deodorante che irrora le sue vignette, anche le più famose come quella scelta per la copertina del catalogo: un poliziotto corpulento che chiacchera da buon amico con un ragazzino fuggito da casa che ha appena rintracciato in un bar. È solo una maligna deformazione professionale l’associazione che ci riporta alla mente l’episodio recente dell’agente che ha abbattuto a rivoltellate un bambino di otto anni con in mano una pistola giocattolo? Solo un riflesso condizionato da critici smagati se ai suoi interni di bar e di casette accoglienti ci viene da soprapporre la desolazione e la solitudine dei quadri di Hopper? Se alla risate affabili di tutti quei Babbi Natale ci vien da sostituire il ghigno cannibale di Hannibal Lecter , l’ottuso sorriso da cow boy di Bush junior?
L’arrivo turbolento degli Anni Sessanta, con l’uccisione di Kennedy, l’esplodere della questione razziale, la guerra in Vietnam, i figli dei fiori rappresenta comunque una scossa anche per lui. Rockwell lascia il Post e passa al Look, settimanale più impegnato sul fronte dei diritti civili. E qui realizza quella che resta la sua copertina più bella. Concisa ed intensa come una foto di Cartier Bresson. Sul fondale di un muro, contro il quale spicca il rosso di un pomodoro lanciato dai segregazionisti si staglia l’immagine di una bambina nera scortata a scuola da una pattuglia di agenti, di cui si intravedono solo le gambe. Poco dopo realizzerà un’altra opera di denuncia ancora più esplicita. Una tragedia del profondo Sud: un attivista nero ucciso a colpi di pistola da uno sceriffo legato al Ku Klux Kan. Il canto del cigno di un artista mancato che si è ridestato troppo tardi da una notte che genera mostri.