Regali di Natale
La narrativa meticcia
Un romanzo per appassionati di jazz, anche se non parla (direttamente) di jazz: «Il tempo di una canzone», libro fra i più appassionanti e ponderosi dell’ultimo decennio, Richard Powers.
All we need is a voluntary, free-spirited, open-ended program of procreative racial deconstruction. Everybody just gotta keep fuckin’ everybody ’til they’re all the same color.*
Warren Beatty
Nell’ansia di linguaggio politically correct, i media mondiali ebbero un moto di incertezza alla prima elezione di Barack Obama, definendolo il primo presidente degli Stati Uniti nero, africano-americano, colored, addirittura “non bianco” (sulla definizione “abbronzato” stendiamo un velo pietoso). L’accuratezza semantica richiederebbe invece il termine “meticcio”. Del quale però il politically correct diffida, analogamente al “purista della razza”. E invece nessuno sa meglio del jazz che è un termine bellissimo: come il meticcio, il jazz non è la somma di molte culture nere e bianche, ma una terza cosa; come la corteccia associativa cerebrale, che contraddistingue gli umani, dalle informazioni A e B è in grado di trarre non A+B, ma C, cioè di creare, di arricchire il sapere.
Non credo che scrivendo Il tempo di una canzone, romanzo fra i più appassionanti e ponderosi letti nell’ultimo decennio, Richard Powers intendesse regalarci un libro sul jazz. E tuttavia a me pare il più bel libro sul jazz che sia mai stato scritto. Molto sensate le sue conclusioni: «Non c’è al mondo un cavallo che possa dirsi un purosangue».
L’incipit arriva da un fatto storico: il 9 aprile, domenica di Pasqua del 1939, il grande soprano nero Marian Anderson deve dare un concerto alla Constitution Hall di Washington, di proprietà delle Daughters of the American Revolution. Saputo il colore della Anderson, le Figlie della Rivoluzione negano il permesso all’utilizzo della sala con un pretesto. L’artista decide di cantare comunque e, con l’aiuto di Eleanor Roosevelt, lo fa al Lincoln Memorial, dove viene applaudita da 75.000 persone in visibilio (la Constitution Hall ne avrebbe contenute meno di 4.000). E qui finisce la cronaca e comincia la storia.
Nell’immensa “platea” si incontrano un matematico ebreo fuggito dal nazismo e un’infermiera nera di Philadelphia. A unirli, l’interesse per una bambina che si è smarrita nella folla. Si amano a prima vista, si sposano, la famiglia cresce, i figli hanno varie tonalità di colore e differenti orientamenti musicali, ma nel costume di casa, con regolarità, la famiglia coniuga le diverse anime nel “gioco delle citazioni impazzite”, che è una delle migliori definizioni della libera improvvisazione che abbia mai sentito.
Vite difficili di “stranieri in ogni patria”, nati da “molteplice seme”, né bianchi né neri, mosse da sentimenti intensi: in fondo nemmeno nella famiglia si rispecchiano in pieno, perché ogni gradazione di colore fa storia a sé. «Un tempo vi erano tante sfumature di pelle quanti erano gli isolati angoli della terra. Ora ce n’erano enormemente di più. Quante gradazioni se ne potevano vedere? Questa pièce politonale, ricca di accordi, suonava per un pubblico sordo che percepiva solo toniche e dominanti, ed era già abbastanza in difficoltà a distinguere fra le due. Ma per mia madre si erano presentate tutte le note della scala cromatica, oltre a parecchie delle micronote intermedie».
È l’epos del meticciato così come il Mahābhārata lo è del continente indiano. Il jazz, oltre che come filosofia generale, fa capolino occasionalmente: quando si parla di un certo Miles Davis, ad esempio, che ha lasciato la Juillard School e poi tradotto in jazz il Concerto d’Aranjuez; ma soprattutto in un passaggio che in qualche modo sintetizza il senso dell’intero romanzo. È il verso di una canzone dell’immenso Duke Ellington, peraltro sciolto nel testo senza riferimenti (il corsivo è mio): «Sing where you are, even as it goes. Sing all the things that this life denied you. No one owns even one note. Nothing trumps time. Sing your own comfort, the song said, for no one else will sing it for you. Spoke Latin, that satin doll» (Canta dove sei, canta come viene. Canta tutte le cose che la vita ti ha negato. Nessuno è padrone di una sola nota. Niente può vincere il tempo. Canta per consolarti, diceva la canzone, perché nessun altro lo farà per te. Parlava latin, la bambola di seta).
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* Quel che ci serve è un volontario, disinibito e illimitato programma di decostruzione razziale procreativa. Dovreste accoppiarvi tutti l’uno con l’altra finché sarete tutti dello stesso colore. (Dal film Bulworth – Il senatore)
Il libro lo trovate a questo link: http://www.libreriauniversitaria.it/tempo-canzone-powers-richard-mondadori/libro/9788804595625