Su e giù per i vicoli, prima di Natale
Napoli è fatta a scale
Donnaregina Vecchia e la stazione metro di Via Toledo, i bassi "imborghesiti" e le chiese senza culto: ecco la passeggiata di un (ex) napoletano a Napoli, in cerca dell'incanto perduto
Bisognerebbe assettarsi, cioè sedersi, se solo vi fosse una sedia o una poltrona. Accoccolarsi, altrimenti, al modo degli indiani d’America, con le gambe incrociate. Soli, lontano dalla folla, senza guide con l’ombrellino alzato sopra la testa per non smarrirsi. E restare in mezzo a quello spazio sospeso e austero, colorato appena qua e là, tra le colonne che reggono il piccolo coro e quell’ara che è un altare primitivo.
Donnaregina Vecchia, Napoli, centro storico tra il Duomo e via Foria, lontano dal clamore dei vicoli e dei Decumani invasi da un fiume in piena nei giorni che precedono il Natale. Qui dentro c’è silenzio e freddo nell’umido ponte dell’Immacolata. Dovevano alzarsi ben alte le voci, invece, quando questo antichissimo monastero sponsorizzato e restaurato da Maria d’Ungheria, sposa di un angioino e regina di Napoli, divenne la sede della Camera del Lavoro prima che i fascisti la cancellassero. La tomba di Maria è un sepolcro che sporge dalla parte di sinistra della piccola chiesa, in fondo si guarda l’abside che ha una forma parzialmente ottagonale illuminata da grandi finestre strette e lunghe. L’abside era dentro la pancia della chiesa più grande, Donnaregina Nuova, sorta trecento anni dopo, nel ’600. Una specie di cordone ombelicale tra le due strutture separate con manovra ardita, tecnicamente parlando, durante i restauri alla fine degli anni Venti.
Ci sono un po’ di ragazzi che ti accolgono all’ingresso, per staccare il ticket e per offrirti qualche depliant. Grazie a loro anche all’ora di pranzo si può entrare e visitare. Altrimenti si resterebbe tagliati fuori. Giovani universitari, probabilmente volontari come tanti altri, che sorvegliano il prezioso monumento pieno di tele che compongono il Museo diocesano, un percorso che attraversa il coro delle monache, signore e plebee che dalle finestre laterali chiuse da inferriate potevano osservare la platea dei fedeli. E immaginare un’altra vita, fuori da quella mistica, di clausura, che pure le metteva al riparo dal mondo ma le privava della vita e dei piaceri.
C’è la grandezza della città capitale in questi tratti di strada e in questi monumenti. La capitale degli Angiò prima e degli Aragonesi poi. Queste chiese senza culto sono dei tesori di storia e di fasti, l’antica gloria e l’attenzione al bello, il buio e la luce, la violenza e gli intrighi, le guerre e lo splendore dell’arte, le botteghe e le scuole, le passioni e le unioni di convenienza. Nel Trecento e nel Quattrocento, Napoli era affollata non solo dagli eserciti e dai notabili francesi e spagnoli, ma anche dai maestri del marmo e della pittura, nomi grandi e piccoli: Giotto e Simone Martini, Tino da Camaino e Arnolfo da Cambio. È il tempo di San Domenico, Santa Chiara, San Lorenzo, Donnaregina. Gli Svevi erano stati cacciati, definitivamente. La testa di Corradino era stata mostrata in piazza Mercato. Avevano tentato, gli Svevi, di far crescere una classe di burocrati delle classi medie della città. Ma Carlo d’Angiò li sostituì con altri burocrati, feudali e odiatissimi. Il sovrano provvide anche ad abbellirla, ad ingrandirla, ad erigere castelli. Lusso e mollezze. I ricchi sempre più ricchi, il popolo schiacciato e misero. Napoli cominciava a diventare quella che si è trascinata fino ad oggi. Più tardi gli spagnoli imposero la Croce, il bigottismo, il culto sfrenato delle apparenze, il formalismo «fino alla pedanteria… la religione del “pare brutto”, locuzione semidialettale dietro cui si nasconde una fuga dalla realtà che, attraverso i secoli, renderà più pigra l’evoluzione della piccola e media borghesia, sempre più nevrotica la sua diffidenza verso la democrazia», scrisse Antonio Ghirelli nella sua Storia di Napoli.
Anche allora bisognava dividere la città in buona e cattiva, la onesta e la mala pianta, santi ed assassini, re e pezzenti, benefattori e grassatori. Come oggi. Conviene dunque separare e capare, cioè scegliere il meglio.
Allora, venendo dai Campi Flegrei, scendere alla stazione Cavour della Metro 2, raggiungere sull’infinito tapis roulant, la stazione Museo della Metro 1. Montare sul bel convoglio giallo non ancora imbrattato e fermarsi a Toledo.
No scusate, pensavo di essere giunto a Napoli e qui mi sembra di stare a Barcellona.
Fottiti, sei proprio a Napoli.
Questa è una vasca, una piscina, non è una fermata di treni. Immaginate di stare sopra qualche docile ippogrifo degli abissi che vi porta su alla superficie attraverso queste pareti azzurre schizzate di bianco. «Speriamo che duri» sospiro con pessimismo. Ma è aperta da due anni e nessuna osa farle un graffio.
Da via Toledo a piazza del Gesù che è ormai un set cinematografico permanente, poi imbocco Spaccanapoli, dove comincia il rosario dei visitatori del Natale, una fila a salire e una fila a scendere, facce italiane più che strangers, veneti e lombardi, piemontesi e toscani: ora hanno avuto il permesso da Salvini. Anziani e giovani, famiglie con la carrozzina e single. In coda anche per un pizza, mordi e fuggi, magari da Di Matteo in via dei Tribunali, antica pizzeria e friggitoria com’è scritto nell’insegna. Quella che attirò persino quel piacione di Bill Clinton, vertice G7, luglio ’94, pontifex Berlusconi, azzoppato dall’avviso di garanzia. Bill passeggiò da queste parti, girò un ciak, l’ingresso nella pizzeria, un trancio di Margherita, il gesto di pagare, ’a pummarola che quasi gli finì sul vestito. Via, via, via di qui.
Più lontano, a due passi da Foria, la chiesa di San Giovanni a Carbonara con una scalinata doppia che l’avvolge. Gli angioini di Durazzo la trovarono al limite della città, laddove prima si scaricavano i rifiuti. L’ampliarono e l’arricchirono. Quasi a voler significare che la capitale desiderava mostrare subito al visitatore la sua grandezza e la sua maestosità. Imponente nella navata centrale, il caldo soffitto in legno, la tomba del sovrano Ladislao sospesa in alto sullo sfondo. E subito dietro, incuranti delle malelingue, la cappella Caracciolo del Sole, il monumento funebre a Sergianni Caracciolo, primo ministro e grande amante della regina Giovanna II. Che ebbe con il potente uomo di Stato un rapporto turbolento, sofferto, definitivo. Lo fece uccidere, alla fine; mentre gli aragonesi già allungavano le mani sul regno. Qui dentro, un secolo più avanti, Giorgio Vasari, dipinse sedici tavole per la sacrestia poi spostate a Capodimonte.
Ancora scale, ma altrove, quelle larghe e basse che portano al Chiostro di Santa Patrizia. Come lo chiamano in molti. Questo rettangolo di verde conduce e si appoggia alla chiesa di San Gregorio, patriarca di Armenia. Se lo si attraversa, si arriva al coro della chiesa barocca, le grate in legno permettono di vedere un soffitto a cassettoni straordinario per bellezza e intensità. Un ambiente severo, gonfio e splendente al tempo stesso, che si apre sulla via dei pastori, San Gregorio Armeno appunto. Il Chiostro di San Gregorio o di Santa Patrizia, chiamatelo come vi pare, era tenuto da monache basiliane, donne d’Oriente, contemplative e devote della santa. Questo fazzoletto rettangolare di piante permise loro di vivere agiatamente. Senza mai figli, senza più voglie. Dentro vi finì anche Enrichetta Caracciolo, che non accettò mai di fare la suora. Enrichetta mandava i pizzini a Garibaldi, quando il generale era in rada e stava per sferrare l’attacco decisivo alla capitale del Regno. Lo informava di come Franceschiello avesse disposto truppe e cannoni. In realtà quello entrò in Napoli comodo comodo, in carrozza, accanto a don Liborio Romano, il primo voltagabbana della storia d’Italia. E lei forse si infiammò per l’eroe dell’Unità.
Solcando i vicoli, mi hanno detto di non guardare nei bassi, li avevo quasi dimenticati. Ero rimasto fisso al basso, al terraneo di Napoli milionaria, quello dove Gennaro Iovine si finge morto per coprire il contrabbando, dove torna dopo la deportazione e dove nessuno vuole ascoltarlo quando racconta le brutture della guerra. Non ho guardato dentro i bassi per non imbarazzare le donne che li ripulivano, non mettere soggezione alle signore anziane piazzate davanti ai televisori-badanti per farle passare il tempo, non infastidire con l’aria del “settentrionale” indagatore e alla ricerca del colore. Sono più i bassi di Eduardo che di Viviani. Come i vicoli. Un po’ più ricchi e grassi con le loro botteghe “globalizzate” rispetto al malinconico disincanto delle viuzze di don Raffaele. Forse è proprio questo il problema dell’antica capitale: la cessazione di un incantesimo.