Una storia tra arte e fantasia
I numeri di Opalka
Che ci fa un famoso artista polacco in un villaggio africano chiamato, per errore, Livingstonia? Storia di un incontro e di un equivoco chiarito: perché contare non equivale a fare operazioni matematiche
Nel 1994 fu costruita una strada tra Mchinji, Kasungu e Msulira, nel Malawi centrale. Il campo base era a Kampulu. Gli alloggi erano ancora in costruzione e per i primi mesi abitammo in un albergo nel centro di Kasungu, un’estesa costruzione d’epoca coloniale, a un solo piano, con la hall e la sala da pranzo ingombre di pesantissime sculture in mogano e un vasto cortile sul quale affacciavano le stanze.
Ero lì da pochi giorni. Non mi piaceva il luogo, né l’opera. Ero irrequieto e seccato d’aver accettato quell’incarico.
Il primo long week-end di paga declinai gli inviti dei compagni che avevano deciso di trascorrere tre giorni in un resort sul lago e preferii andarmene da qualche parte per conto mio.
Montai in macchina, un pick-up Toyota doppia cabina, e partii verso Mzuzu. Non sapevo con precisione dove dirigermi, avevo letto qualcosa di un posto chiamato Nyika Plateau dove esisteva una cittadina dal fantastico nome di Livingstonia, e pensai di andare a darle un’occhiata. Nell’albergo dove pernottai, a Mzuzu, potei procurarmi una carta stradale della regione e un opuscolo illustrativo sul Plateau.
Il Nyika Plateau è un altopiano brullo, circa 2000 m sul livello del mare. Un’ondulata distesa di brughiera quasi completamente priva d’alberi, estensioni sterminate di pascoli incomprensibilmente privi di bestiame, vegetazione essenziale, rada, bassa, e poca o nulla popolazione. Fui abbastanza soddisfatto, quando mi ci trovai, pareva il luogo adatto.
Guidai per chilometri nella brughiera deserta. Faceva piuttosto fresco, data l’altitudine, e lungo la pista non s’incontrava nessuno. All’estremità orientale dell’altopiano un brusco escarpment di quasi mille metri precipitava a valle, sulla punta settentrionale dell’immenso lago. Quello era il posto denominato Livingstonia.
Mi ci volle poco a sgomberare il campo da un equivoco. Avevo erroneamente creduto che Livingstone si fosse spinto fin lì nelle sue esplorazioni e per questo la città portasse il suo nome. Nulla di più falso. Livingstone non ci aveva mai messo piede, i suoi percorsi africani avevano solo lambito il Plateau. Dei missionari presbiteriani, impadronitisi abusivamente del suo nome, l’avevano utilizzato per battezzare la missione, fondata parecchi anni dopo la sua morte.
Deluso, presi una camera in uno dei tre resort che affacciano sull’escarpment e mi organizzai per la notte. Era comunque un posto molto bello. Spartano fino alla crudezza, la camera pareva la cella di un convento, pareti nude, né elettricità né acqua corrente. Ci si lavava in un bacile d’acqua, il solo mobilio era un letto in legno con su un vecchio materasso e un armadio a una sola anta. Le stanze davano su un lungo corridoio al primo piano, allineate, tutte uguali. Affacciandosi alla finestra, si vedeva l’escarpment e il lago. Il resort non passava asciugamani, né coperte. Nel prezzo della camera – ridicolmente basso – era compresa una candela per la notte.
Avevo con me il sacco a pelo, una torcia elettrica e un paio di ricambi. La cena si consumava in un grande stanzone al pianterreno, un unico ambiente con un camino e un braciere dove gli ospiti del resort cucinavano da soli il loro cibo. Le donne di Livingstonia avevano improvvisato un mercato sotto gli alberi di una piccola spianata davanti al resort. Vi vendevano pezzi di carne, uova, verdure e latte, su bassi banchetti di legno coperti da tettoie di frasche. Gli ospiti del resort potevano fare individualmente la loro spesa, cuocerla sul braciere e cenare seduti su lunghe panche disposte attorno a un immenso tavolo. Il resort metteva parsimoniosamente a disposizione stoviglie e bicchieri. Un inserviente s’incaricava di ritirare pentole e piatti sporchi, lavarli e rimetterli nello scaffale dove, con un po’ d’attesa e aspettando disciplinatamente il loro turno, gli ospiti potevano riprenderli e servirsene. Un’atmosfera che ricordava un po’ quella di certi rifugi alpini di una volta: comune, taciturna, ordinata e frugale.
Consumai una specie di cena con due pezzi di carne mal cotta e delle patate dolci, poi uscii a fumare e a cercare un bar. Ce n’era uno nell’altro resort, un po’ più grande, giusto accanto. Quattro tavolini malconci sparsi su una brutta gettata di cemento meravigliosamente affacciata sull’escarpment. Era buio e faceva quasi freddo. In un angolo, accanto a un fuoco acceso, un vecchio coperto da una tunica che aveva l’aria di mendicare – ma invece aveva un’occupazione, era il custode del parcheggio – raccoglieva per terra trucioli di legno, li inzeppava nel fornello di una pipa dal cannello lunghissimo e li fumava accovacciato tra le ruote dei pick-up.
Il bancone era l’unica parte fievolmente illuminata del bar. Aveva alle spalle una specchiera opaca, pesantemente inquadrata da una mastodontica cornice di legno scuro, scolpita con motivi di vita primitiva nei villaggi. Nel legno quasi nero erano rozzamente intagliate capanne, giganteschi baobab, ragazzi radunati attorno a un vecchio che impartisce una lezione sotto un albero dalle fronde a ombrello, scene di caccia e di vita domestica nel villaggio. Il frontale del bancone in mogano, anch’esso scolpito, rappresentava delle maschere. Davanti, su alti sgabelli, sedevano tre donne grasse e non più giovani, ma dall’aria allegra, i vestiti succinti e sorrisi facili e promettenti.
Sedetti nella zona più buia della battuta di cemento, quasi al limite dell’escarpment. Solo un altro tavolo era occupato. Due uomini, uno più giovane, l’altro decisamente vecchio, parlavano in francese e fumavano Gitanes dal puzzo inconfondibile.
Il giovane disse al vecchio: «La facciamo a settembre da Renault. Marie Anne sta organizzando gli inviti e scrivendo il testo, Jo-Jo stamperà il catalogo».
Il vecchio pareva poco interessato. «Se proprio ci tenete… Non posso dire di no a Marie Anne…».
Poiché parlavano d’arte e di mostre, e anni addietro, prima di partire, me n’ero occupato vagamente, mettendo su con degli amici di Roma una galleria per giovani artisti in una specie di bar notturno chiamato Il desiderio preso per la coda, m’incuriosii e stetti ad ascoltare.
Il caso a volte è davvero strano. Quello che mi trovavo di fronte in uno sperduto resort africano era un polacco naturalizzato francese, un certo Opalka, artista che avevo marginalmente seguito negli anni Ottanta e di cui avevo visto una mostra al Beaubourg. Che ci faceva in un posto come Livingstonia?
L’aspetto dell’uomo era piuttosto scialbo. Il volto flaccido e allungato, di un pallore nordico, con l’ampia fronte molto stempiata avvolta da una rada nuvolaglia di capelli candidi che scendevano fin sopra le orecchie e sul collo. Indossava un ampio giaccone di pelle morbida, calzoni trasandati e sandali ai piedi nudi. Portava appoggiato sul ginocchio uno sgualcito esemplare di Stetson. Aveva più l’aria di un colono che di un pittore. Non avevo mai visto Opalka, ma ebbi poi modo di verificare, raffrontando delle foto, che il vecchio era proprio lui.
A quanto ricordavo, Opalka era un autore a suo modo estremo, e questa era una delle ragioni per cui mi aveva interessato. L’altra era che apparteneva al ristretto novero di artisti che a quei tempi esploravano una zona di confine tra le arti visive e la matematica, o la scienza, e all’epoca quello era un campo per il quale anch’io nutrivo interesse. I suoi quadri rappresentavano numeri, solo numeri, nient’altro; e componevano un’unica opera, piuttosto vasta, consistente nel tentativo, intrapreso nel 1965, di enumerare i naturali da uno fino all’infinito. Tutte le sue tavole avevano lo stesso titolo – Détail – ed elencavano valori ordinatamente crescenti, meticolosamente dipinti in diverse tonalità di colore su tele zeppe di cifre.
Perché mai uno dovrebbe dipingere numeri? Ricordavo abbastanza bene la mostra del Beaubourg. Six Détails, s’intitolava, Centre Pompidou, Parigi, 1983. Ciascun détail partiva dal numero successivo all’ultimo del détail precedente e procedeva ordinatamente per righe orizzontali, dal margine superiore sinistro a quello inferiore destro della tela. Nei sei dettagli esposti al Beaubourg Opalka si aggirava attorno al secondo milione. Si trattava di détails degli anni Settanta. Il manifesto di presentazione assicurava che Opalka, che aveva deciso di consacrare la vita intera a quell’opera, era tuttora al lavoro. Dunque era lecito desumere che avesse raggiunto cifre più cospicue.
Un’opera come la sua obbliga a fare dei conti. Dato che in un anno vi sono poco più di trentun milioni di secondi, se Opalka lavorasse al ritmo di un numero al secondo – il che non è, perché dipinge con cura – impiegherebbe più di trent’anni per arrivare al primo miliardo; questo, dedicando in esclusiva il tempo alla sua opera ossessiva. La vita intera di un uomo affetto da monomania non consente di andare molto lontano, in un tentativo del genere.
Ma il vecchio canuto che sedeva al tavolino accanto al mio non aveva l’aspetto di un fanatico. Sorseggiava brandy con calma e non dissimulato piacere. Gli abiti trasandati lo facevano sembrare un colono, sì, ma sono anche tipici di un pittore. Di colpo, l’aspetto intellettuale e creativo del vecchio mi parve prevalere sulla sciatta immagine che inizialmente me n’ero formato. Che ci faceva lì? Lui e il suo amico ora parlottavano del viaggio. Sarebbero ripartiti l’indomani, diretti a Mzuzu e di lì in Tanzania. Udii i nomi di Dar Es Salaam, Zanzibar e Mafia. Quindi il percorso avrebbe seguito il più tradizionale dei tracciati africani: Serengeti, Ngoro-Ngoro, Moshi, Arusha fino a Nairobi, dove avrebbero preso un aereo per l’Europa.
Faceva quasi freddo sulla gettatina di cemento affacciata sul vuoto dell’escarpment. Dal lago cominciò a soffiare un vento teso e umido. Raccolsi attorno alle spalle il giubbotto che mi ero portato e quando il pigro cameriere si avvicinò, ordinai anch’io del brandy. Vidi che pure Opalka era infastidito dal vento e si stringeva nel giaccone di pelle morbida. Non mi parve irragionevole che a un uomo che s’imbarca nell’impresa di un’opera come la sua, piacciano i viaggi avventurosi.
Tra gli artisti si contano tanti esempi di viaggiatori. Ma che razza di artista-viaggiatore è Opalka e che avventura c’è nelle sue tele piene di numeri? Con un’autodefinizione immodesta, ricordavo che in alcune interviste a riviste specializzate Opalka si era attribuito il titolo di artista che dipinge il tempo.
Ora, che il confronto col tempo sia alla base della sua opera radicale, è un fatto ineccepibile e persino ovvio, tanto da risultare banale. La conta, la successione di numeri, una delle semplificazioni più immediate del tempo, è ciò che Opalka ha scelto di dipingere. Ma a me pareva che la sua opera contenesse anche un’ambizione diversa, e maggiore, rispetto alla rappresentazione visiva più asciutta ed essenziale dell’inesorabile confronto con il tempo e del suo esito scontato.
Ricordavo che la mostra del Beaubourg Opalka, six détails, Paris 1983 aveva un sottotitolo: «Una rappresentazione del mondo», o «La rappresentazione del mondo», o qualcosa di simile. Questo mi aveva fatto pensare che nel lontano 1965 Opalka avesse scelto una convenzione collaudata e affidabile come i numeri per cedere a una tentazione che per un certo periodo e in un certo ambiente è stata comune, e ha afflitto molti artisti concettuali come lui: quella dell’opera esaustiva. Certo, l’ambiziosa dichiarazione del titolo è un bluff aperto: quand’anche Opalka campasse cent’anni, il massimo contenuto possibile del suo lavoro sarebbe comunque una frazione infinitesima del tutto, percentualmente inferiore a quella che avrebbe ottenuto dipingendo anche un solo pezzetto di natura: una foglia, per esempio, o un filo d’erba. L’opera si presenta dunque come un paradosso: ha in sé il massimo di incompletabilità, associato al minimo di invenzione; si dichiara esaustiva, omnicomprensiva, ma è invece del tutto marginale.
Perché, allora, dipingere numeri? Cosa c’è nella conta, nella successione di numeri, che ha affascinato Opalka al punto da dedicarle tutta la sua attività d’artista? Per rispondere a questa domanda dobbiamo forse risalire alle origini: come nascono i numeri, perché si inizia a contare? Un uomo che conta i capi di bestiame, che misura a passi un campo, che in un baratto scambia un certo numero di oggetti per un certo numero di altri. Questi atti primitivi originano e diffondono i numeri, ne fanno gli elementi base di una disciplina che, partendo da necessità pratiche e concrete, si evolve e via via si raffina in forme più astratte: l’aritmetica, la matematica.
Un fisico, e in modo più impuro anche un ingegnere, sa che la matematica – questa misteriosa invenzione umana – ha la facoltà di rappresentare la natura e di fornirne un modello. ‘Il numero penetra la natura e consente di coglierne il significato’, diceva Leonardo. I numeri, il primo atto del misurare (quell’uomo che misura a passi un campo, che conta i capi di bestiame) sono il momento fondante di qualcosa di tanto importante per l’umanità quanto la scoperta del fuoco o l’invenzione della ruota.
Per molto tempo, schiere di matematici, fisici e ingegneri hanno usato i numeri per rappresentare i fenomeni della natura, con approssimazione sempre migliore. Per uno scienziato i numeri sono, giustappunto, misure; misure di grandezze fisiche, legate da leggi matematiche che esprimono un modello via via più complesso e affidabile, ma ben lontano dall’essere esaustivo, della natura.
Allora, con un salto logico degno di un artista, Opalka ritiene che esaurire i numeri equivale ad esaurire la natura, e parte per la sua conta. Cioè: non sceglie di rappresentare un modello del mondo, ma il suo elenco, il suo dizionario. In questo senso è pienamente giustificato che scelga come codice di un’operazione – che a questo punto diventa essenzialmente linguistica – i soli numeri naturali e trascuri tutti i segni di internumerazione, il punto e la virgola, i numeri frazionari, gli irrazionali, i periodici e i complessi, che sarebbero stati note dolenti per un pittore accurato come lui.
Quest’aspetto dell’opera di Opalka, al tempo stesso folle e pedante, è però mitigato da un contrappeso di segno opposto. Le sue tele esprimono un meccanismo regolare, ripetitivo, al limite ossessivo, ma anche infantile e innocente: quello del contare. Poiché è questa la cosa che rende interessante la sua opera, va investigata meglio.
Credo sia chiaro che contare è cosa ben diversa dall’enunciare numeri. Dire uno o dire cento è sostanzialmente la stessa cosa, vengono entrambi percepiti come una entità. Ma contare da uno a cento è cosa ben diversa. Cento unità rappresentative si sono accumulate nella conta, e ciascuna è in certo modo una conquista. Questo giustifica il valore intellettuale che Opalka attribuisce alla numerazione. È anzi probabile che al di là di un certo limite (presumibilmente basso) oltre il quale nessun uomo si è mai spinto, si provi la sensazione di essere un pioniere che esplora territori sconosciuti, un Livingstone concettuale. L’emozione è puramente intellettuale, si capisce, ma non bisogna riderne.
Questo meccanismo semplice, ingenuo – contare – è l’essenza dell’opera di Opalka. Chi ricorda il primo approccio infantile coi numeri? Contare sulla punta delle dita, un bambino assorto che conta, questo è Opalka che dipinge i suoi quadri. In una delle più antiche metafore sul tempo, fu Eraclito ad affermare che ‘il tempo è un bambino che gioca’. Immaginiamo un fanciullo pensoso, impegnato nell’occupazione esclusiva di contare le dita; ma, arrivato a dieci, non si ferma, ne conta altri dieci, poi altri dieci ancora, e così all’infinito; incantato dai numeri, produce nella sua fantasia oggetti da contare, assorto in questo gioco, attento a non commettere errori. Quest’attività basilare e rapita ha impegnato buona parte della vita di Opalka – e da un certo punto in poi, tutt’intero il suo percorso di artista. Vista da un luogo remoto come Livingstonia, la sua conta infantile prende quota, assume un senso visionario che la eleva al di sopra della mera portata concettuale dei suoi numeri; mi ha fatto venire in mente le parole di un ben più grande artista-viaggiatore e straordinario visionario, Paul Gauguin, che dal suo eremo di Tahiti scrisse: «Au monde qui m’ait tenu ce langage d’enfant, car il faut l’etre, n’est pas, pour s’imaginer qu’un artiste soit quelque chose d’utile».
Qualche goccia di quello stesso spirito infantile trasuda dall’opera di Opalka, e la redime dalla pedanteria ossessiva della sua pittura. Così la sua interminabile conta acquista un valore. Lo acquista in virtù della sua innocenza, della sua purezza. L’opera di Opalka è arbitraria, come qualsiasi opera. E’ assolutamente logica, benché del tutto irragionevole e destinata fin dal principio all’insuccesso. Contiene al suo interno un nocciolo ingenuo, ma irriducibile e irrazionale, che la avvicina alla follia. E acquista entro i suoi limiti (piuttosto modesti, a mio avviso) un significato eroico.
La serata si concluse presto. Verso le undici, vuotati i bicchieri, Opalka e il suo amico si ritirarono, e anch’io mi alzai e feci ritorno alla mia stanza, con quel senso di soddisfazione che vi danno le serate non spese invano. Faceva freddo, ma dormii bene. Non rincontrai Opalka il giorno dopo, quando partii per far ritorno in cantiere.
Opalka morì a Chieti, in Abruzzo, Italia, il 6 agosto 2011, all’età di ottant’anni. Tenne l’ultima personale a Venezia, alla galleria Michela Rizzo. L’ultimo numero che dipinse fu 5.607.249.