Uno dei migliori libri dell'anno
La grotta di Giordano
«Giordano», il romanzo d'esordio di Andrea Caterini è un apologo sull'egoismo sociale: la storia di un garagista che - concentrato solo su di sé - si dimentica di vivere
Questo libro, che ci piace segnalare, è senza dubbio uno dei più originali e raffinati romanzi di autore italiano che siano usciti negli ultimi mesi. L’autore è Andrea Caterini, classe 1981, ed è, oltre che narratore, anche un critico letterario. Edito dalla Fazi ( 126 pagine, 15 euro) s’intitola Giordano. Costui è un uomo di mezza età che lavora di notte in un garage romano, «un ventre grigio» dal quale non esce mai. Si accorge che magari piove vedendo che le auto che arrivano, e lui deve sistemarle in un maleodorante labirinto di latta, sono bagnate. A raccontare la sua storia, con spietato e lucido affetto, è il figlio Diego. Non si sa da quale punto, ma ha poca importanza.
È Diego l’io narrante del fallimento professionale, sentimentale ed esistenziale del padre, già operaio (sa tutto del ferro, era abilissimo fabbro) e poi, con un azzardata impennata d’orgoglio, piccolo imprenditore nel garage di casa sua. Ha fallito con la sua voglia di indipendenza, ha ammesso la sconfitta ed ha affrontato quel «massacro emotivo» che gli ha causato un ictus. Dimesso dall’ospedale ha scelto il suo “sottoterra”, ovvero il garage, una sorta di “museo funebre” molto simile allo spazio che in Cina contiene un esercito di terracotta. Giordano ne è il lugubre imperatore, ondeggiante tra vari tristi umori, al riparo dal mondo, è vero, ma perseguitato dai suoi fantasmi. Il nulla lo inghiotte, con invisibili mani unghiate. Si sente soffocare, si meraviglia quando qualche cliente automobilista gli rivolge la parola, avido com’è di un «come stai?» ma nello stesso tempo timoroso nel dare una risposta. Ma lui non ce l’ha, e si macera, cammina e sbanda tra le auto come una iena sdentata, sempre sorpresa a tentare di azzannare le proprie carni.
Andrea Caterini, l’autore, in questa sua dolorosa osservazione, cerca di vivisezionare le ossessioni del padre. Le conosce bene, tuttavia sa che in un angolo recondito della mente di questo moderno “dannato”, si nasconde un nodulo di veleno mortale. È come se depositasse il suo corpo, sporco e puzzolente, su una lastra operatoria e ci infilasse un’impietosa ma necessaria sonda che possa illuminare le sue metastasi. Ovviamente, essendo il figlio, colleziona ricordi della “precedente” vita di Giordano e autorizza se stesso a credere che le più divoranti domande se le ponga anche chi, nella penombra di ferro, ridicolizza ormai anche la vita. La propria, e quella degli altri. Giordano era uomo diverso quando sposò Marilù con la quale aveva condiviso «notti di gioia» ricordando le loro infanzie e di queste, in particolare, il gioco di tenere in mano qualcosa «immaginando che fosse un tesoro da custodire». A poco a poco i palmi si sono aperti ed entrambi si sono accorti che le dita non trattenevano ormai nulla che fosse un tesoretto comune. Il nulla dilaga anche nella camera da letto dove è felicità quando «i sogni e i doveri si condividono». Ubriacato dagli sforzi per realizzare il suo sogno impossibile, Giordano all’alba rientrava a casa e si buttava, già come corpo umiliato e sfibrato, sul divano.
Marilù, che non aveva mai condiviso, nemmeno con apparenze ipocritamente gentili, l’impresa solitaria del marito, era stata attratta da Sandro, il migliore se non l’unico amico del fabbro. Sguardi ambigui, frettolosi, complicità tra i due, soprattutto quando Sandro, operaio acculturato, chiedeva a Diego dei suoi studi e con un certo acume discettava su materie a lui sostanzialmente sfuggenti. Lo faceva con curiosità sincera, e si metteva in gioco, convinto com’era che la sua esistenza di operaio non era il baricentro. L’autentica sua vita era l’interesse per l’arte, per la letteratura, per la filosofia. Giordano si metteva all’angolo, emarginato. I ruoli si ribaltavano ferocemente: era lui l’ospite ostinatamente silenzioso, senza il coraggio di affrontare o quantomeno ammettere la propria ignoranza. E così la distanza affettiva tra il padre e la madre di Diego si dilatava, nell’imbarazzo di tutti. Poi il crollo mentale e fisico, poi la scelta di voler dimenticare un universo che pur gli apparteneva e quindi di nascondersi tra i fumi dei tubi di scappamento. Trasandato, disorientato. E ossessionato da alcune foto che per lui testimoniavano la odiosa liason tra sua moglie e il suo amico.
L’autore di questo libro presta una frase-chiave a Giordano: «Forse il mio problema è che non so vedere altro da ciò che mi riguarda, non so immaginare nulla se non me stesso». È diventato, dunque, lo specchio di un problema. E poi quelle foto, traccia di un tradimento insopportabile di una donna di cui non sente più la voce. E Sandro? Un giorno gli telefona. Il cellulare, impostato a viva voce, parla, parla. Chiama Giordano, che esita come ormai esita su tutto. Si legge verso la fine: «Sandro sapeva che non avrebbe ottenuto, in quel momento, risposta alcuna. Per riportarti a casa, pensava, sarebbe bastato che tu lo ascoltassi, convinto com’era di colpirti nel punto che ti avrebbe fatto cedere e deporre le armi, arrendere al dolore, guardando negli occhi per ricominciare a vivere». Diego sa bene che il padre ascolta la voce dell’amico, che non l’ha mai interrotto, «se non per tossire qualche volta, come se le scorie che portavi dentro da troppo tempo chiedessero improvvisamente di essere espulse tutte in una volta». Tra rabbia e rancore, Giordano, insegue come belva in gabbia chi lo ha «ucciso», per poi fermarsi su una tremenda frase di Sandro: «Come avete potuto dimenticare vostro figlio?». La notte sta per finire, esce piano piano dal garage, contenitore del suo “lungo sonno”. Pensa al non tradimento di Marilù, all’errore vero, quello di tradire ognuno se stesso, strangolando «il sogno primigenio» e di allontanarsi «per comodità e indifferenza». Giordano, sul limitare della discesa percorsa dalle auto, si accorge che piove: «Ora la vita si riconnetteva ai nomi e alle immagini che le avevano dato un significato». Il garagista, maldestro speleologo dei propri fantasmi, si accorge di essere nudo e fragile. Però è fuori dalla sua parossistica spelonca. Finalmente fuori.