Regali di Natale
Terapia dell’infinito
“Morte di un naturalista”, la prima silloge di Seamus Heaney, dove già si delinea la cifra del poeta irlandese: vedere dentro di sé, trasformare la tenebra interiore in luce scintillante. Scavando con la sua “tozza penna”...
«I rhyme/ to see myself, to set the darkness echoing». Rimo, per potermi vedere, per rendere il buio echeggiante. Sono gli ultimi versi di Elicona personale, ultima lirica della prima silloge di Seamus Heaney, pubblicata in traduzione italiana dallo Specchio Mondadori alla fine di agosto per commemorare il grande poeta irlandese a un anno dalla scomparsa (Seamus Heaney, Morte di un naturalista, trad. di M. Sonzogni, 118 pagine, 17,00 euro).
Vedere dentro di sé, trasformare la tenebra interiore in coraggiosa luce scintillante è la cifra di una poetica ai suoi esordi, ma già ben delineata. Heaney è un poeta-contadino: tutto il suo “lirismo” consiste nello scavare a fondo e riconquistare ciò che era sepolto come anamnesi collettiva in una sorta di reminiscenza platonica («Tra il mio pollice e l’indice riposa/ la tozza penna./ Scaverò con questa», Scavare) con punte di resipiscenza («In un popolo che faceva la fame dalla nascita,/ che scavava, come piante, nella terra,/ fu innestato un grande dolore./ La speranza marcì come una zucca», A uno scavo di patate). Il buio e lo scavo interiore rimandano, dunque, secondo una piena consonanza con la geografia della memoria, al luogo essenziale della torba: l’Irlanda stessa è una torbiera fumigante, palude incarbonita da cui tracima il ricordo di ciò che è stato: delle passioni, delle lotte, del pulsare cosmico («Teschi vivi, occhi ciechi, in equilibrio/ su stravolti scheletri sconnessi,/ rovistavano la terra nel quarantacinque,/ divoravano la radice infetta e morivano»). Il “potersi vedere”, raccogliendo il dono della terra e il frutto di un particolare egotismo della Storia, coincide esattamente con il passaggio dal buio al visibile, dall’opaco al brillante, dalle tenebre al bagliore: è portare alla luce la propria coscienza storica perché risplenda come la rosa pulsante della cometa.
«Poi un giorno di calura in cui i campi puzzavano/ di letame nell’erba, le rane inferocite/ invasero la fossa del lino; mi infilai tra le siepi/ sentendo uno sguaiato gracidio che mai/ avevo udito. L’aria era ispessita da un coro di bassi./ Giù in fondo alla fossa, rane dal ventre greve se ne stavano impettite/ sopra le zolle; le gole flaccide pulsavano come vele. Qualcuna saltava:/ i tonfi e i plop erano oscene minacce. Altre stavano ferme/ come bombe di fango innescate, le tozze teste scoreggianti./ Ebbi nausea, voltai le spalle e corsi via. I grandi re della melma/ si erano radunati là per vendicarsi, e sapevo/ che se avessi immerso la mano le uova me l’avrebbero afferrata».
Alla visita della memoria “ritrovata” si innesta un acceso naturalismo perduto nel passaggio alla maturità, quando l’Io si distacca dalla fusione con il creato per assumere una posizione naturalmente “atea”, direbbe Lévinas, cioè di separazione dalla casa in cui pure si vive come padroni di casa. Tale status dalla valenza intimamente spirituale, non già psicologica, comporta la presa di coscienza dell’Altro nell’incontro dell’amore e delle responsabilità etico-sociali.
Agli albori dello splendido rapporto con la moglie Marie (alla quale la silloge è per altro dedicata) risale Scaffolding,una delle più significative liriche di Heaney, che riporto qui per intero:
I muratori, quando iniziano un edificio,
si preoccupano di testare l’impalcatura;
si accertano che le assi non scivolino nei punti critici,
fissano tutte le scale, serrano i giunti imbullonati.
Eppure tutto questo scompare a lavoro finito,
svelando muri di pietra solida e sicura.
Perciò, mia cara, se talvolta sembra
che tra me e te stiano cedendo vecchi ponti,
non temere. Lasciamo pure cadere l’impalcatura,
sicuri di avere costruito il nostro muro.
L’impalcatura è il sistema di pensiero che investe l’Altro nelle consuete regole sociali. Far cadere l’impalcatura significa rompere il “gioco delle parti”, poggiare nuovamente la relazione col Tu sulla certezza sedimentaria della pietra, cioè su di un amore incondizionato, non determinato dalle buone maniere o dalla convenienza, ma capace di riparare, a opera del disvelamento esistenziale come Ereignis, ai vecchi ponti franti. Tale visione dell’approcciarsi con l’alterità erompe anche nella questione politica che Heaney ha più a cuore: la sudditanza dell’Irlanda intesa nel suo femmineo lasciarsi possedere. «Era il mare che definiva la terra o la terra il mare?/ Ciascuno traeva nuovo senso dall’impatto delle onde./ Il mare si infrangeva sulla terra fino a una piena identità» (Amanti su Aran). L’Irlanda accoglie a sé la dominazione “immemoriale” del mare e “storica” dell’Inghilterra. Concede. Dona sé. L’intrinseca femminilità dell’isola, rilevata finanche in una lingua dal timbro dolce, è un destino irrimediabile: «Eccolo,/ che arriva, nella testa il raspare/ di una dura penna;/ il pennino affilato su un vento salso/ e intinto nel mare in lamento» (Synge sulle Aran).
La morte del naturalismo è, in senso lévinasiano, la via della letteratura come terapia dell’infinito: il buio echeggia, l’interiorità s’illumina, l’Io apre all’esistenza dell’Altro e a ogni possibile, percorribile trascendenza.
Un vuoto di bisogno
comprimeva i due cuori cacciatori
ma tremando ci tenevamo
lontani come falco e preda,
mantenevamo decoro classico,
dispiegando le parole con arte.