All'Accademia di San Luca di Roma
Due volte Scialoja
Gli allievi (da Kounellis a Giosetta Fioroni) e gli amici (da Angelo Gugliemi a Francesco Moschini) hanno reso omaggio all'arte e al magistero di Toti Scialoja. A cent'anni dalla nascita
«Bisogna ricordare con chiarezza che quell’uomo sottile e maliconico insegnava in Accademia cose rivoluzionarie e creava con gli allievi un clima speciale», ha dichiarato Jannis Kounellis, aggiungendo che, quando aveva 20 anni, fu proprio quel suo maestro, Toti Scialoja, a fargli fare «la prima mostra, pagando lui la galleria e scrivendomi una presentazione». Nella sua aula passarono anche Pascali, Ceroli, Dessì e Giosetta Fioroni ricorda che fu grazie alle sue lezioni «che il mio desiderio di fare l’artista divenne una decisione irrevocabile», grazie al suo essere «appassionato, magnifico, intenso, grazie a una grande comunicativa, che arrivava a teatralizzare quel che faceva, magari salendo in piedi su un tavolo, seducente, vestito di nero, come un attore o un mimo».
Sono due delle testimonianze degli amici e allievi di Toti Scialoja, che lo hanno ricordato all’Accademia di san Luca, dove sono state proiettate anche vecchie interviste all’artista, assemblate da Teche Rai, e Marcello Panni ha diretto l’esecuzione delle sue Canzonette a tre voci, composte negli anni ’80 appunto su poesie di Scialoja.
Nato il 16 dicembre 1914 a Roma, Scialoja mostra sin da giovanissimo il suo talento artistico che si manifesta in più direzioni, non solo come pittore ma anche come poeta. La sua creatività si sviluppa altresì nel teatro con importanti scenografie e costumi; ma non si risparmia neppure nell’insegnamento, prima come docente poi come direttore dell’Accademia di Belle Arti di Roma, dove porta una ventata di novità, specie dopo il suo viaggio in America e l’incontro con la pittura di Rotko e de Kooning. Viene eletto accademico pittore nel 1988 dall’Accademia Nazionale di San Luca diventandone poi vice presidente. Realizza numerose mostre personali e partecipa ad importanti collettive in Italia e all’estero. È scomparso a Roma nel 1998.
È stato a suo tempo un poeta e critico sensibile come Giovanni Raboni a parlare di «doppiezza o meglio duplicità» a proposito di Toti Scialoja, del suo essere poeta e pittore, e, citandolo, Francesco Moschini, segretario dell’Accademia, ha detto che ancor più si potrebbe parlare di «poliedricità» a proposito di questa figura di artista e intellettuale inscindibile nelle sue parti, come hanno sottolineato molti degli interventi. E ha anche ricordato come Scialoja, che era autodidatta, in realtà fosse andato tutta la vita alla ricerca di grandi maestri, sino alla scoperta all’ultimo di Goya, sicuro che «la pittura nascesse dalla pittura».
Dipingere fu una passione coltivata sin da ragazzino, anche se poi «l’università di Scialoja fu la frequentazione della galleria La Cometa, diretta dal poeta Libero De Libero, dove oltre a incontrare Cagli o Fausto Pirandello, poteva conversare con visitatori come Mauriac o Valery», come ha ricordato Giuseppe Appella, mentre la critica d’arte Lorenza Trucchi, sottolineando come fosse molto amato da Cesare Brandi e andasse affrontato «quale intellettuale a largo raggio» e amasse dire che «la pittura serve a vivere, non a contemplare né a contemplarsi» ha sostenuto che «le sue cose migliori siano quelle legate al gesto, alla sua pennellata impetuosa, al suo istinto vitale, in cui si ritrova tutta la sua potenza emozionale». E allora ecco i ricordi del suo studio di Piazzetta Mattei, che per terra conservava strati e strati di vernici dei suoi lavori, e così i muri dove erano appesi i suoi grandi quadri.
Anche la poesia Scaloja cominciò a praticarla sin da bambino e per i bambini (i suoi nipoti) la riprese da adulto creando per loro nonsense, quasi limerick legati a nomi di animali, rivelando subito la sua forza interiore, la sua carica multisenso, che manterrà anche quando diventerà, conservando le sue peculiari caratteristiche, poeta per adulti, se così si può dire, pubblicando i versi di La stanza, la stizza, l’astuzia. «Il poeta gioca su continui slittamenti verbali e di senso, che aprono a ogni verso scenari diversi», spiega Paolo Mauri (che ha curato tra l’altro il volume antologico di Scialoja Versi del senso perso per Einaudi) ricordando come, «a un certo punto, il suo accanimento semantico si fosse trasformato in accanimento metrico, con uno studio e risultati quasi classici», e sottolineando come la sua fosse una poesia anche «conviviale, sonora, da recitare, che insegnava l’uso e i segreti della parole a iniziare dai bambini». Quindi Angelo Guglielmi ha voluto ricordare che «per essere fanciulli da adulti, come Scialoja, bisogna essere grandi artisti». E se i suoi maestri letterari erano Lear, Granville e altri (come ha ricordato Biancamaria Frabotta), sempre per Guiglielmi «i suoi riferimenti importanti restavano Leopardi, per la sua poesia suscitatrice di vitalità, e Carroll, per la ricerca e le sorprese che si nascondono nel continuo incontro e scontro delle parole». Non per nulla piaceva a Gadda, che nel Pasticciaccio cita una sua tela.