Un lungo catalogo di errori (e orrori)
Doping di Stato?
Alla luce del caso Schwazer/Kostner, vale la pena rileggere un libro fondamentale di Sandro Donati. Per capire davvero quale sia la filosofia delle medaglie. In Italia
Il Papa li ha anche benedetti un po’ di anni fa, al Giubileo degli sportivi. Erano tutti lì tanti peccatori e pochissimi santi. Ministri, dirigenti del Coni e delle federazioni sportive, atleti e atlete. Era il 4 novembre del 2000 e l’Équipe, il quotidiano sportivo francese, commentando l’epurazione di chi dentro il Coni si opponeva alla pratica del doping in molti sport, scriveva: «…il Coni …non ha… da pavoneggiarsi: il giudice Pierguido Soprani lo ha accusato di aver organizzato una “organizzazione criminale” negli anni Ottanta… Un vero doping di Stato. Ma non ne sortirà nulla, poiché il giudice ha dovuto archiviare i fatti per prescrizione… domenica scorsa, c’è stato il Giubileo degli sportivi a Roma, cioè il giorno del grande perdono. Alla destra del Papa, nello stadio Olimpico, sedevano Franco Carraro, ex presidente del Coni all’epoca dei fatti incriminati dal giudice, e Gianni Petrucci, l’attuale presidente. Il Papa ha loro chiesto “di preservare il corpo umano da ogni attentato alla sua integrità e da ogni forma di idolatria”. …Poi li ha benedetti».
Sono ancora giorni del doping, questi di fine novembre e di inizio di dicembre 2014. La Procura antidoping del Coni ha chiesto più di quattro anni di squalifica per Carolina Kostner, colpevole, secondo l’accusa, di favoreggiamento e omessa denuncia per aver mentito per tre volte depistando il medico-ispettore dell’Agenzia mondiale antidoping (la Wada) che doveva fare un prelievo di sangue ad Alex Schwazer, il suo uomo, marciatore, medaglia d’oro ai Giochi di Pechino. Era l’estate 2012, poco prima delle Olimpiadi di Londra. 51 mesi di squalifica per Carolina, nove in meno dell’ex fidanzato, il drudo che marciava con l’eritropoietina (Epo) in corpo e che ora, guarda un po’, si è messo a collaborare con gli inquirenti. Una richiesta pesante che ha suscitato polemiche e dubbi, quasi giustificando quelle bugie di una donna innamorata. Il Coni e la sua Procura ci hanno messo due anni per esaminare la posizione di Carolina, l’angelo del ghiaccio, la fidanzatina dell’Italia che crede ancora alle favole. Nel frattempo la pattinatrice altoatesina è andata a vincere un bronzo ai Giochi invernali di Sochi e un altro terzo posto l’ha conquistato ai Mondiali. Ora che è a fine carriera e danza in spettacoli di gala tipo Holiday on ice, ora che difficilmente porterà più medaglie, le si può dare un calcio nel lato B calzamagliato, mostrare la faccia feroce, mandarla al rogo. Dopo due anni di silenzi da parte dei Grandi Inquisitori. L’ha scritto efficacemente Aligi Pontani nel suo blog di Repubblica.it e riesce difficile non dargli ragione.
Sono giorni di doping per via dei ciclisti dell’Astana (la squadra kazaka di Vincenzo Nibali): tre del team giovanile accusati di far uso di steroidi anabolizzanti, due della formazione senior, la stessa del siciliano vincitore del Tour, alle prese con l’Epo. Sono giorni di doping per via della staffetta azzurra 4×100, argento agli Europei 2010 di atletica, per via di un pasticciaccio brutto con il Bentelan. Sono infine giorni di doping per un pomposo convegno del Coni sulla scottante materia, una parata per strombazzare sullo sport pulito. Franco Arturi sulla Gazzetta dello sport ha ricordato a brutto muso a Giovanni Malagò, presidente del Coni dal febbraio 2013, gli annunci fatti: «Sul doping, vi stupirò».
Non c’è traccia, invece, di inversione di marcia nei dirigenti dello sport italiano, né tantomeno si è fatta autocritica fosse solo per evitare gli errori del passato, le collusioni, le coperture sulla farmacia sempre aperta negli anni addietro e mai chiusa, sprangata, per velocisti, lanciatori, sciatori, sollevatori di pesi, ciclisti, calciatori (ma questi ultimi hanno sempre goduto di una protezione speciale: al Laboratorio del Coni i flaconi di urina venivano buttati direttamente nei cessi). È un filo rosso che non si è mai spezzato. Né i grandi scandali anche fuori dai nostri confini, quello di Lance Armstrong innanzitutto, hanno innescato ripensamenti e alzato autodifese efficaci. Piuttosto è l’antico adagio del Conte zio che continua ad ispirare i vertici del Palazzo sportivo: sopire, troncare, troncare, sopire. E’ sempre stato così, ieri come oggi.
C’è un capitolo nello Sport del doping. Chi lo subisce, chi lo combatte (edizioni Gruppo Abele, 16,00 euro, 304 pagine) che l’autore, Alessandro (Sandro) Donati (nella foto) ha intitolato «Tacere e sopire, celebrare e negare», parafrasando le parole di Manzoni: un titolo che serve a spiegare le ambiguità, le capriole e l’omertà dei capi dello sport azzurro. Dopo una prima edizione del 2012, con un alto indice di gradimento nelle librerie, Donati ha rimesso mano, lo scorso anno, al libro, per arricchirlo delle ultime vicende, dalla storia di Pistorius, nella cui casa sono stati ritrovati steroidi anabolizzanti, fino al caso Schwarz. L’ho letto in questi giorni e ho chiuso l’ultima pagina convinto che la pratica del doping nello sport italiano ad alto livello sia stata applicata metodicamente, quasi un sistema, così come si faceva nella Repubblica democratica tedesca di Erich Honecker o, con modalità certo diverse, negli Stati Uniti, non proprio delle mammolette nella materia.
Un doping di Stato, come scriverà qualche magistrato molto tempo dopo le accuse di Donati. Perché quando l’allenatore di velocisti e mezzofondisti mise le mani sugli appunti del dottor Daniele Faraggiana – un medico torinese notissimo negli anni Ottanta per aver trattato molti atleti con steroidi anabolizzanti, l’artefice, con il professor Francesco Conconi, dei successi “drogati” dell’atletica leggera e del sollevamento pesi italiani alle Olimpiadi di Los Angeles nell’84 – capì che non c’era di mezzo nella pianificazione della truffa, soltanto l’Istituto di biochimica dell’Università di Ferrara, il gabinetto del dottor Caligari, alias Conconi. Le pratiche coinvolgevano anche istituti del Cnr, l’istituto di Scienza dello sport del Coni, le federazioni e i gruppi sportivi con le stellette: Fiamme Gialle (Guardia di Finanza), Fiamme Oro (la polizia), Carabinieri. Quando le denunce arrivavano in mano ai magistrati di Roma, scrive Donati, tutto finiva in un nulla di fatto: il “porto delle nebbie” della Procura romana assecondava, diciamo così, i desideri dei vertici sportivi. E come potevano comportarsi altrimenti, quei signori con la toga, se un bel po’ di loro, ad esempio, collaboravano o presiedevano molte commissioni del Coni, pagati non proprio due lire (con denaro pubblico)? Immaginatevi i politici poi, fossero i vecchi democristiani alla Andreotti o rampanti ministre di sinistra come la Melandri che certo, nel 2000, sponsorizzò e fece approvare la legge contro il doping, rassicurando Donati – non ti fermare nelle tue denunce, anzi dacci una mano – ma poi, dopo passerelle e cattive frequentazioni alle Olimpiadi di Sidney, decise di proseguire come i suoi predecessori e stabilire innanzitutto buoni rapporti tra governo e Coni.
Il doping di Stato si srotola lungo un arco infinito di tempo secondo Donati: da Cova (resterà l’urlo in tv di Paolo Rosi ai mondiali di Helsinki dell’82, quel «Cova, Cova, Cova…» ripetuto sette volte nello sprint finale: e noi che ancora ci crediamo) a Schwazer. Perché non è che finisce con le Olimpiadi di Los Angeles. O con la caduta di Primo Nebiolo, il megalomane geniale, come lo chiama lo stesso Donati, che trasformò l’atletica leggera in un grande spettacolo e affare, titillando in mille modi anche molti giornalisti. Affinché si adoperassero a screditare Sandro Donati, ad isolarlo nel suo ufficetto del Coni come un appestato, un rompiscatole, un soggetto malato di protagonismo, un sabotatore. Donati non ne ha le prove ma sospetta fortemente che il Coni abbia addirittura fatto sparire dalle librerie un libro, Campioni senza valore, in cui denunciava l’andazzo dello sport italiano, acquistandone migliaia di copie e mandandole al macero. Il tecnico formatosi sotto la guida di Carlo Vittori, il grande allenatore di Pietro Mennea, non ha mai avuto un carattere facile e certe sue prese di posizione sono sembrate, alle volte, delle esagerazioni. Ma ha combattuto sempre in maniera pulita e onesta, mettendo in guardia per i gravi danni alla salute che certe pratiche alla lunga possono procurare, denunciando i traffici della criminalità organizzata sul doping. Facendo riflettere sulle morti sospette che pure ci sono state. Ha sbattuto contro uomini cinici e apparati di potere che avrebbero stritolato chiunque. Oggi Donati è uno dei più grandi esperti mondiali contro le pratiche illecite nello sport (ma pare che al convegno del Coni non sia stato invitato, non c’è bisogno di dirlo).
Il professor Conconi, compagno di sgambate in bicicletta con Romano Prodi, non è mai stato cancellato dal Coni. Conconi ha fatto parte della Commissione scientifica antidoping, la sua Università ha ricevuto centinaia di milioni per le ricerche finalizzate alla performance grazie ai farmaci. Il professore ha cercato di nobilitare scientificamente i suoi studi, ha rivendicato i risultati ottenuti, ha addirittura provato su se stesso, durante le sue scalate in bici, l’Epo. Il Comitato olimpico ha continuato a servirsi di lui, fino all’altro ieri, nonostante tutto. Federazioni e singoli atleti sono ricorsi a qualcuno dei suoi allievi come Michele Ferrari, coinvolto anche nella storiaccia di Armstrong. Carraro e poi Gattai (ma anche Pescante e Petrucci) hanno sfruttato, apertamente o sottobanco, le pratiche di Conconi ed hanno difeso negli anni la collaborazione del Coni con lo scienziato dell’Università di Ferrara.
Perché, dopo l’atletica leggera, toccò allo sci di fondo. Negli anni Novanta fioccarono le vittorie. Manuela Di Centa, Mauro Albarello, Maurilio De Zolt, Silvio Fauner, Giorgio Vanzetta sono stati protagonisti in quel periodo. Erano atleti “curati” con l’eritropoietina da Conconi. Portavano però vittorie, medaglie, sponsor. Regalavano soldi al Coni attraverso il finanziamento dello Stato. Anche Schwazer ha prodotto medaglie. Il Coni sapeva dei comportamenti sospetti del marciatore alla vigilia di Londra 2012, ma non denunciò nulla alla Wada. Né ha mai risposto a quegli esperti che avevano lanciato l’allarme sulle falle del sistema antidoping (lo ha scritto Eugenio Capodacqua su Repubblica).
Vale dunque sempre quello che Enzo Rossi, il ct dell’atletica leggera dei tempi di Nebiolo, disse un giorno a Sandro Donati: «Al pubblico interessano le medaglie, tu sei in grado di raggiungerle solo con l’allenamento?».