La mostra al Chiostro del Bramante
Il vento di Escher
Nel genio del grande artista "geometrico", l’orizzontale Olanda fu spodestata dall’Italia verticale del Sud e di Roma: visita guidata a Escher, cercando la "sua" Napoli
Escher o della sottesa geometria del mondo. Così si potrebbe cominciare un discorso sull’artista olandese, le cui opere sono in mostra Roma nel Chiostro del Bramante. Innanzitutto la tecnica. Escher disegnava, certo. Ma quel che vediamo sono soprattutto xilografie e litografie; sono dunque il frutto di un lavoro di duplicazione del disegno originario; sono il risultato di chi “stampa” le sue linee. È inutile dire che Escher in entrambe le tecniche era un virtuoso e sapeva trarne il meglio, “limitando” la sua immaginazione a un bianco e nero fittamente tramato di grigi e di ombre. Solo di rado viene usato il colore, e si tratta di un colore che non squilla di cromìe, tenuto appositamente sotto tono per lasciare spazio all’ossatura delle immagini.
Sopra e sotto, notte e giorno, bianco e nero: c’è una polarizzazione nel mondo di quest’artista del Nord che trovò se stesso al Sud. Fu infatti in viaggio in Italia a spalancargli la scoperta di un mondo in discesa e in salita. Un mondo obliquo e verticale. La scoperta avvenne guardando certi paesi calabri, la Sicilia e la costa d’Amalfi (a Ravello conobbe la donna che diventò sua moglie). In mostra non ci sono immagini riguardanti Napoli, e non sono in grado di dire se Escher si sia incontrato con la città verticale per eccellenza o meno. Mi chiedo cosa sarebbe venuto fuori se avesse percorso le “erte vie” del Petraio o della Pedamentina; di sicuro sarebbe stato preso dalla vertigine di quest’accumulo di scale precipitanti verso il basso del mare; lui, il re immaginativo delle scale, sarebbe stato capace di estrapolarne la radice quadrata, scoprendone la geometria tutta a vista e insieme misteriosa e allusiva.
L’orizzontale Olanda fu dunque spodestata dall’Italia verticale del Sud e di Roma, dove presto prese dimora. Ecco dunque il primo passaggio che la mostra romana mette in rilievo.
Vengono in seguito più ardite estrapolazioni. La sottesa geometria del mondo emerge alla vista. Gli uccelli che in stormo fendono l’aria si trasformano in pesci che nuotano nella profondità del mare. L’occhio di chi li rappresenta si sta familiarizzando con le geometrie dei cristalli e allo stesso tempo sta scoprendo la Gestalt, la psicologia della visione. Sia dalla parte dell’oggetto rappresentato sia dalla parte del soggetto percepiente c’è un viavai di scoperte e di acquisizioni. Ed Escher ne tiene conto e va oltre nella sua frattalità immaginativa.
Il tutto è sottoposto alle leggi della metamorfosi. Gli emblemi, i dettagli visivi, gli animali, gli oggetti non stanno mai fermi; c’è come un vento che li trasforma in altro. E anche il visitatore viene trasportato di sala in sala da questo vento volatore. Fino ad arrivare al grande rettangolo che prende un’intera parete e ha proprio il titolo di Metamorfosi e davvero non è difficile immaginare che avrebbe riscosso il plauso di Ovidio.
Per osservarlo ben bene bisogna camminarci accanto; seguire il tripudio di animali e figure geometriche che danzano, dandosi il cambio, uno innanzi all’altro, ma anche l’altro dietro l’uno, in uno scambio continuo di spazi. Ed ecco che gli ultimi uccelli diventano poliedri e vanno colorandosi di un rosso mattone; ed ecco che i poliedri diventano case, così tante da formare un paese scosceso che termina con una chiesa e un alto campanile, che si riconoscono come quelli di Atrani, nei pressi di Amalfi. E la chiesa si sporge attraverso un ponte e si collega a un castello fatto di una sola torre e quella torre altri non è che uno dei pezzi di una grande scacchiera; la quale di colpo da verticale diventa orizzontale e da ogni angolo retto si spinge in uno spazio a righe la parola “metamophose”, che si duplica sia in orizzontale sia in verticale a formare delle croci che hanno il loro punto d’unione nella lettera O.
Guardiamo e camminiamo; camminiamo e guardiamo: il rettangolo invita ad essere “letto” in entrambe le direzioni. Il fiatone che ci prende non è solo quello che gonfia i polmoni: è anche un fiatone delle immagini stesse, del loro nomadismo visivo, dell’irrequietezza che Escher gli ha trasmesso.
Fuori in molti fanno la fila per entrare; e di sicuro saranno ulteriormente affascinati da un artista le cui immagini sono finite un po’ ovunque – dai manifesti alle copertine dei libri (Calvino lo volle per le Cosmicomiche) alle magliette – e che finalmente si può osservare seguendone le linee e la luce; una luce simile a quella che filtra tra le colonne del chiostro di Monreale in una sua opera esposta a Roma e che lui ha fatto respirare sulla carta “duplicata” di xilografie e litografie.
Infine un consiglio. Incrociate questa mostra di Escher con quella dedicata ai numeri – s’intitola proprio così: Numeri – in corso al Palazzo delle Esposizioni. La O delle Metamorfosi qui diventa uno O fertile e pieno di cose da imparare. Di sala in sala si gioca e s’impara; si scoprono quanti metodi diversi sono stati adottati per numerare il mondo e quanti strumenti – dai più artigianali ai più complessi ed elettronici – sono stati inventati. E si scoprono le correlazioni tra i numeri e l’alfabeto. E si pensa che far di conto è uno degli aspetti primari del mondo. E si ripensa ad Escher e si ricorda come le sue geometrie abbiano detto ai numeri: qualche volta mettetevi a sognare anche voi.