Teresa Maresca
Al Teatro Franco Parenti di Milano

Tel Aviv è Napoli

Non perdete «Il lavoro di vivere» di Hanoch Levin con Carlo Cecchi diretto da André Ruth Shammah. Perché l'autore israeliano costruisce un ponte tra Beckett e Eduardo

Il lavoro di vivere di Hanoch Levin – che ha appena debuttato al Teatro Franco Parenti di Milano, per la regia di André Ruth Shammah, anche traduttrice del testo assieme a Claudia Della Seta – è anzitutto un testo teatrale nuovo per il pubblico italiano, come d’altronde è il suo autore. Ebreo di origine polacca, famiglia emigrata in Israele nel ’35, Levin visse a Tel Aviv dove fu regista teatrale ma soprattutto autore di commedie e tragedie. La sua poetica lo collega alle istanze dei narratori ebrei più noti al grande pubblico: la disillusione, il dramma del quotidiano, il pesante compito di portare avanti un’esistenza, il “lavoro di vivere”, per l’appunto, e il senso sfuggente dell’essere al mondo. Nel dramma di Levin l’arma del sarcasmo distrugge i protagonisti, fino al punto da annullarne le personalità. Tanto che alla fine si scambiano i ruoli: vittima e carnefice, chi abbandona e chi è abbandonato, chi disprezza e chi ha bisogno dell’altro.

Nel dramma Il lavoro di vivere una coppia di mezza età, Yona e Leviva, si battono da avversari sul letto che li vede da sempre coniugi ed estranei, condannati all’ineluttabile accoppiamento per la paura di vivere e di morire da soli. Sono lontani i “Giorni felici” di Beckett, direi distanti anni luce, benché partoriti anch’essi dal buio dell’anima e dal male di vivere del secolo da poco trascorso. Perché  la feroce coppia beckettiana in realtà non si parla, l’uno non considera neanche l’esistenza dell’altro, e non c’è alcun vero duello e nessuno scontro, ché se ci fosse i due dovrebbero forzatamente incontrarsi, per potersi scontrare. In Beckett la lingua, che non è linguaggio comune, è parola essenziale, raffredda e raggela e situa la commedia umana in uno spazio siderale, dove i suoni appunto non si sentono. Come due astronauti la cui base sul pianeta sia anch’essa muta, ogni dramma umano diventa tragedia dell’umanità, e la soluzione inarrivabile e forse del tutto inconcepibile.

carlo cecchi Ruth ShammahLevin invece rimane nella materialità che è disincantata e scettica, l’ironia diventa sarcasmo, ferita auto inflitta. I due protagonisti si graffiano, si spingono giù dal letto, si offendono, si mortificano. La lingua è disperatamente comune, quotidiana, al punto che lo spettatore può riconoscersi in certe cattiverie, in certi rancori coniugali. Pare che alcune rappresentazioni di Levin siano state interrotte dagli spettatori offesi e inferociti. Il rimando dunque non è al non-luogo di Beckett, ma semmai a Ellis Island e alla comunità  degli immigrati che si snocciola nelle pagine dei narratori ebrei americani come Roth o Bellow, o anche Georges Perec, e a quelle storie che girano tutte attorno alla domanda sul senso di essere al mondo, senza trovare poi una risposta che sia consolante. O al nostro Montale, per cui l’umanità si riduce a una inesausta “fila di minuscole biche”, che prosegue immotivatamente il proprio percorso. Proprio come fa Yona nel testo di Levin.

Senonché la grande interpretazione di Carlo Cecchi trascina lo spettatore italiano anche verso il teatro napoletano, cui Cecchi sembra far riferimento con la recitazione asciugata e ciondolante. In fondo il “desengaño” dei protagonisti del teatro di Eduardo non è poi così lontano dal sarcasmo e dalla disillusione di questi Yona e Leviva, e a pensarci bene è proprio il marchio del pensiero ebraico.

E in questo strano rapporto tra Napoli e Israele entra anche un vecchio spettacolo di Cecchi, La Morte dint’o lietto e’don Felice, di Petito, di cui, chi l’ha visto nel ‘79,   mi racconta una straordinaria danza macabra e una magnifica interpretazione. Anche attorno a questo letto di Levin danzano le anime dei morti, evocate dai due protagonisti, e prendono forma nelle persone di noi spettatori, nella piccola sala che pare una soffitta, del Teatro Franco Parenti.

E anche, richiamati da questo partecipare al rito del teatro così vicini, così dentro e attorno allo spettacolo, tornano alla memoria gli anni ’70, quelli in cui tutta Milano e tutta Italia riempivano i teatri, e dove i teatri nascevano ovunque, nelle soffitte come nelle cantine, e si praticava la teoria del teatro povero, ma da quelle suggestioni, provenissero dal guru-Grotowski o dal guru-Artaud, nasceva spesso un teatro ricco di bellezza e di rito.

In questa limpida regìa, oltre a Carlo Cecchi, stregante, anche gli ottimi Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto, un terzo personaggio che arriva alla fine a  cementificare paradossalmente la sorte dei due coniugi, nel cuore della notte e nel cuore del litigio,  proprio per via della  sua solitudine pavida e rabbiosa. Le scene di Fercioni, paiono un elegante e nitido allestimento di Arte Povera alla Calzolari (ancora gli anni ’70!), e le luci della camera da letto di Gigi Saccomandi racchiudono come un utero il sogno incuboso della coppia.

Sono previsti due mesi di repliche.

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