Un inedito sugli anni Novanta
Storia d’un amico
Andrea Carraro racconta in versi la storia di Sandro Onofri: l'Italia che imbruttisce, la letteratura veritiera e la malattia che colpisce, un giornalismo ardimentoso e un congedo - allora - troppo frettoloso
Ma ti ricordi quando scrivevate tutti sull’Unità?
Come vi sentivate gagliardi e giovani e a la pàge
E se la penna del critico graffiava
Era sempre un bastardo incompetente
Un venduto un nemico
E pure il fallimento
Consegnato al mito
Odorava di vittoria
Ma ti ricordi quando Sandro
E Annamaria e Nicola e Renzo
E Goffredo e Alberto
Là in fondo ti salutavano
Senza levare gli occhi dal terminale
Che sfarfallava caratteri
Primitivi e verdi di colore
Lampeggiando sul cursore
Grosso come un dado da cucina?
Eccolo so’ le cinque
E sedici vuoi scommette’?
E ci azzeccavano sempre
Era noto che non resistevi
Un solo minuto in più
Di quello fissato per contratto
Nella tua odiata divisa di bancario
Indugiavi col cartellino in mano
Davanti ai bussolotti delle timbrature
Nell’ingresso signorile a via Piacenza
Ricordi? anche dieci minuti
In attesa delle 17:00 fatidiche
Insieme ad altri forzati
Come te che bruciavano il tempo
Insomma li rivedi sui seggiolini girevoli rossi
Che continuamente facevano ruotare
In un verso e nell’altro
Come Redford e Hoffman
In Tutti gli uomini del presidente
Più per il piacere di farlo
Che per nervosismo
L’immancabile cicca fra le dita o in bocca
La striscia di fumo che saliva
In un tortile colonnino
Verso il soffitto greve
Un po’ Socialismo Reale
Un po’ giornale di partito
A pannelli finto metallo
Era la redazione di Diario
Sgnaccata in quel là sotto
Che non aveva un nome
Per qualcuno Galleria della Mercede
Per altri Galleria dell’Unità
Per altri ancora solo l’Unità
Comunque nelle viscere del mondo
Viscere e cuore voglio dire
A un tiro di sputo da piazza di Spagna
Da via Veneto dall’obelisco
Fra vestigia antiche in ogni dove
Là sotto la luce del giorno
Non arrivava e non arrivavano
Le luminarie della strada
E il chiarore lunare
Quando faceva sera
E tu che avevi l’animo
Sotto la suola delle scarpe
Per l’ennesima giornata persa
Tu a guardarli immersi
Fra i libri e le scartoffie
In quella luce livida e spartana
Li invidiavi eccome ma ti sentivi
Anche tu parte di una temperie culturale
E finalmente Sandro s’alzava
Ti misurava un poco paraculo
Con la punta del naso
Sotto la zazzerona sale e pepe
Come sanno fare solo certi plebei romani
Sempre tentati dallo sfottò
Se solo gliene dai il fianco
Con un chilo di più sulla panza
Un nuovo capello bianco
Una calvizie che avanza
E sorridente ruvido massiccio
E anche un po’ goffo sapete
Nel corpo e nel movimento
Nei suoi abiti qualunque
Privi di appeal – gli abiti di Sandro
Solo comodi solo necessari
Da chi all’abito non pensa
Perché ha cose più urgenti
Certi golfoni girocollo
Di fantasie improbabili
Certi mocassini larghi e robusti
Scelti per la suola resistente
Allora amico mio tutto a posto? – ti faceva
Che me racconti? Che ci hai portato?
Ndo’ t’hanno mannato stavolta?
A Torre Annunziata a Badolato
A Scampia? Aoh gajardo Scampia
Quasi come i tossici de Ostia
E tu avresti voluto abbracciarlo e baciarlo
E chiamarlo fratello
Ma ancora non usava
E Dio solo sa quant’era meglio!
Gli mettevi solo la mano sulla spalla
Con un affetto virile e discreto
Di due sodali che si amano e si stimano
(V’eravate recensiti a vicenda)
Senza doverselo dichiarare ogni volta
Senza volgari messinscene
Di due “compagni di strada”
Come ti aveva scritto
Nella dedica al libro d’esordio
Luce del nord che avevi amato
Su una Roma cinica e cariata
Non più popolo e ormai gente
Gente indifferenziata
In un brodo di stupidità e corruzione
Con le tivù di quel ceffo a farla da padrone
E così provvisoriamente abbracciati
Ve ne andavate al baretto oblungo
Rosso vivo nel colore dominante
Di via della Mercede sempre
Battuto da redattori e tecnici del giornale
Che lui conosceva e salutava uno per uno
Senza distinzione di ruolo o età
Dal correttore di bozze al dimafonista
Dal grafico ciccione
Al sindacalista degli interni
Al ragazzo della portineria
Per tutti un sorriso un motto romanesco
Di quelli festosi e grevi
Un commento vivace sul calcio
Su sta Roma che ce fa sempre soffrì
Oppure ragguagli sulla famiglia
Sui fiji che so certi paraculi
Alla fine del caffè la sigaretta
Immancabile sul marciapiede
Sottile scomodo insensato
Quasi sempre all’imbrunire
A un passo dalle macchine
Provenienti dal Tritone
Dal Messaggero per intendersi
La cui insegna azzurrina brillava
Contro il nero incipiente della notte
Oltre al profilo plumbeo dei palazzi
E quelle macchine passando quasi
Vi frusciavano addosso
Insieme ai pedoni costretti
Fra strada e finto marciapiede
A stressanti manovre
Poi lui si rimetteva al chiodo
Ai suoi pezzi lucidi e arrabbiati
Sempre illuminati dalla pietas
Da una cultura vera
(non come la tua rimediata)
Acquisita all’università
Senza sconti
Lui che s’era laureato
Con Giulio Ferroni o Pedullà
Quei pezzi dicevo
Sulla curva sud sui militari di Aviano
Sulla scuola sulla letteratura
Sul malaffare nostrano
Su quell’Italia di lustrini e di mignotte
E di massoni che gli faceva schifo
E come poteva piacergli dico
A lui insegnante di borgata
A lui giornalista e intellettuale
Di sinistra senza discussione
A lui scrittore della realtà
Senza belletti e strizzatine
D’occhio paracule
Come pochi ce n’erano
A lui italiano a lui romano
Fino al midollo
Con la sconfinata America nel cuore
Che conosceva – dov’era vissuto
Dov’era stato con la moglie
In quel viaggio da leggenda
Che gli illuminava gli occhi
Quando te ne parlava
Sui Grandi Laghi fino in Canada
Quell’America che aveva ispirato
Vite di riserva racconto-reportage
Sugli indiani delle Riserve
Meraviglioso libro di viaggio
Di memoria e di paesaggio
Di riti arcaici e segregazione
Quell’America degli ultimi
Cancellati dalla storia
Con lui dentro
Fino al punto di assistere
(In gran segreto) a un’autentica
Danza del Sole dei Sioux,
Quell’America lì voleva raccontare
L’America dell’amato Springsteen
Dei poveri degli emarginati
E dunque come poteva
Andargli a genio
A lui figlio di proletario
A lui allievo di Cerami
Con Pasolini impresso nella carne
Come segno araldico e destino
Il paese nostro in quegli anni?
Questo era l’uomo che avevi di fronte
Sandro Onofri è di lui che parliamo
Ormai dev’esser chiaro
E tu col bus o con la vespa te ne tornavi
Ai tuoi vittimismi alle tue storie nere
Sarebbe tutto qui se non fosse
Per quel trascurabile dettaglio della fine
Coi suoi brutti presagi
Con lui che s’ammala perdio
E non va più in redazione
E neppure a scuola
Con lui che deperisce e muore
In ospedale e tu che non
Riesci ad andare una
Sola volta a trovarlo
Con la scusa che avevi
Appena perso tuo padre
Nello stesso schifoso modo
Fra morfina e flebo
Fra catarro e sangue
Che macchiava le lenzuola
O poteva macchiarle
Tu ch’eri nel picco della tua
Depressione ma sì
Di scuse pronte ne avevi
Lo ascoltavi morire al telefono
Poche parole strappate
Ogni volta col forcipe sapete
Di lui sempre più afasico e sfinito
Dalle chemio e dal cancro
E più cattivo – come mai
L’avevi visto o sentito
Ma come – alla lettera faceva –
Io ci ho il tumore, il cancro e tu
Mi fai pettegolezzi letterari?
Gli parlavi dei libri usciti
Delle fottute recensioni
Per farlo evadere
Perdio da quell’inferno
O lo facevi per te
Per evitare il cordoglio?
Ti rallegravi delle critiche
Al suo ultimo libro
Che finalmente uscivano
Ma non ti rassegni mica
Continui a prender tempo
Con te stesso e con gli altri
Domani vado domani cerco di andare
Con tutti invero tranne con Nicola
Che ancora fatica a perdonare
Telefonasti a Sandro fino all’ultimo
Chiedendo delle sue condizioni
A lui finché rispose al cellulare
E poi a chi c’era in sua vece
Ora la madre ora il padre ora la moglie
Cercando sempre di eludere il cordoglio
Con parole cieche ipocrite mondane
Come se ci fosse qualcosa di male
A dolersi di un amico che sta morendo
Lasciando una moglie e una figlioletta
E tu con quella dannata fretta
Di chiudere ogni volta
Di cancellare la sua voce
Perché ti torceva le budella
Saperlo lì dentro a tirar le cuoia
In quel modo sì comune
Ma feroce ugualmente
Tanto poi ti informavi bene da Nicola
Ch’era da lui quasi in pianta stabile
E ne condivideva il dramma
Insieme a Marina e ai pochi congiunti
Scrivesti di lui a caldo
Sul foglio del Critico severo
Per i meno svegli Lo straniero
E anche lì eludesti il cordoglio
Rifiutando il santino devozionale
Parlasti di un uomo ferito
Dalla società letteraria
Manipolata e conformista
Offeso dall’ipocrisia della critica
Giornalistica e accademica
Serva dei grandi gruppi editoriali
Votata alle mode effimere
Che solo adesso in punto di morte
Si era accorta di lui
Insomma consegnando
Al mondo un ritratto
Fuori dal cliché di scrittore del popolo
Buono con tutti e puro e sorridente
Che in tanti stavano cavalcando
E creandone però un surrogato
Assai poco edificante
Fatto salvo l’elogio critico s’intende
Da uomo del sottosuolo
Tortuoso e macerato
Quanto vorresti non averlo scritto
Quel necrologio algido
Che riguardava piuttosto te stesso
Che il tuo defunto amico
Fosti vile insomma
Anche con lui
Lo fosti scientemente
Lo fosti fino in fondo
Che anche questo resti agli atti
Per gusto di verità
Per onorare i fatti
Resta fuori solo il funerale
Dove riuscisti finalmente a andare
Vincendo il tuo terrore
Del trapasso il tuo demone
In una luminosa mattina
Di fine estate
La cerimonia si svolgeva
Nella grande chiesa cementizia
Di San Gregorio Magno alla Magliana
Nel cuore del suo quartiere popolare
Stracolma come un uovo – la chiesa
Di studenti suoi e giornalisti
C’era anche il direttore del giornale
Che allora era Veltroni
E amici scrittori e intellettuali
A strafottere! A gonfiar la navata
Fino a farla scoppiare
Perdio soltanto ora
Ti rendevi conto
Della popolarità del tuo amico
Di quanto avesse seminato in giro
Furono i suoi studenti a ricordarlo
Mica il direttore del giornale
Era talmente gravida la chiesa
Che qualcuno ascoltava da fuori
Dal sagrato pieno di sole
Come Sandro Veronesi
Che seduto su un muretto
E Ingobbito ciondolava i piedi
Sbattendoli sul muro
E Governi a figura intera
Sullo sfondo del grande portale
Spalancato che gli parlava
Fumando una sigaretta
Ecco l’ultima immagine
Che hai serbato nel cuore
Del 20 settembre del Novantanove
A un tiro di schioppo
Da quel giro del millennio
Che gli fu negato
Per malasorte
O per fissare forse
La sua appartenenza integrale
A quel “secolo dei brutti”
Che così bene nei suoi libri
Aveva saputo raccontare