Una riflessione tra poesia e cinema
Sterminator Leopardi
Il rifugio nella poesia, la vitalità umiliata, la gobba, le puttane e l'«aria buona» di Napoli: il Leopardi di Martone/Germano è un rivoluzionario mancato; che rivolge la violenza contro se stesso
«Così ho pensato di andare verso la grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme, da cento anni, il giovane favoloso»: queste le parole di Anna Maria Ortese, dette durante una visita alla tomba di Giacomo Leopardi nel Parco Virgiliano di Piedigrotta, a Napoli. Il giovane favoloso, così lo chiama; appellativo ripescato dal regista napoletano Mario Martone che lo usa come titolo del suo ultimo film sulla vita del grande poeta e filosofo dell’Ottocento. La locandina raffigura Giacomo (interpretato da un più che convincente Elio Germano) a mezzo busto, capovolto, come a sottolineare la radicalità del suo pensiero, rifiutando di fatto la ragione, intesa come statica razionalità, abbracciando il creativo dinamismo dell’ immaginazione, salvezza dell’uomo dall’infelicità e illusorio conforto al dolore.
Questo rifiuto è evidente quando il giovane Leopardi intrattiene una passionale relazione epistolare con il letterato rivoluzionario Pietro Giordani. L’amico lo spinge a fuggire dall’integralismo cattolico della famiglia, dall’aridità d’animo della madre, dal padre possessivo che lo rinchiude nella sua grande, silenziosa biblioteca nel palazzotto della cittadina pontificia di Recanati. Per lui, non contaminarsi con la realtà significa eludere qualsiasi concupiscenza, senso di ribellione verso i dogmi di stampo etico morale predicati principalmente dalla Chiesa. Giacomo è perciò costretto a osservare la realtà dalla finestra, seduto alla scrivania, dove compone i suoi primi versi.
Le musiche sono composte dal giovane musicista tedesco Sascha Ring che sperimenta originali contaminazioni tra opere classiche rossiniane e musica elettronica; richiami per esempio all’Andantino della Sonata IV di Rossini e allo Stabat mater. Leopardi, infatti, amava molto l’artista tanto che al Teatro Argentina di Roma assistette a La donna del lago. E commentò: «Eseguita da voci sorprendenti, è cosa stupenda, e potrei pianger ancor io, se il dono delle lacrime non mi fosse stato sospeso, giacché mi avvedo pure di non averlo perduto affatto». Leopardi è stato emarginato dalla società e dagli stessi intellettuali che lo etichettano come un depresso, capace solo di autocommiserazione. «Pessimismo, ottimismo… che parole vuote!», dicono beffardamente al poeta in un salotto fiorentino.
La condizione fisica di Giacomo, al contrario dell’elevarsi del suo pensiero, regredisce velocemente: diventa un gobbo, un mostro, un disadattato, quasi un fenomeno da baraccone come Joseph Merrick in The Elephant Man di David Lynch; penso alla scena grottesca, di sapore felliniano nel bordello, quando Giacomo parte per Napoli insieme all’amico e scrittore partenopeo Ranieri. Il compagno lo convince a fargli perdere la verginità con una puttana in un casino sotto la città, nella vecchia Neapolis. Un gruppo di scugnizzi lo spia dal finestrone, lo deride e lui, vergognandosi, scappa. Analogamente Joseph Merrik sente l’umiliazione del proprio corpo deforme, nudo davanti alle prostitute che, per un gioco perverso, lo tormentano, lo sbeffeggiano.
Elio Germano riesce a distaccarsi da qualsiasi stereotipo recitativo non solo nel linguaggio verbale ma soprattutto con la ricerca meticolosa del giusto movimento, gesto che tende a un incredibile realismo del personaggio. «Nanerottuolo, scartellato!»,chiamano Giacomo nei vicoli, ma nella città partenopea il gobbo è di buon augurio e la diversità, nelle sue tante forme, è storicamente accettata, compresa, spesso sdrammatizzata attraverso l’ironia. Per esempio, nello straordinario memoriale di guerra Napoli ’44 di Norman Lewis, lo scrittore britannico è proprio affascinato dalla figura del gobbo che spesso incontra nelle vie della città: «Vendono biglietti della lotteria, e chi li compra prima di ritirarli dà loro un colpetto o una leggera carezza sulla gobba», racconta. Questo reciproco sostegno che unisce la gente di Napoli, nasce ancor prima delle guerre, del colera che in questi anni fa migliaia di morti, costringendo il poeta stesso a trasferirsi a Torre del Greco. La città, infatti, è stata sempre governata da re stranieri che hanno ridotto in miseria, in schiavitù il popolo e qualsiasi rivolta per la sopravvivenza veniva soffocata nel sangue.
La dionisiaca città napoletana è perciò metafora di quell’idea di solidarietà, di amicizia tra gli individui a cui Leopardi aspira poiché la vita è un’estenuante lotta tra la brutalità della Natura e l’Uomo. Nella maturità, infatti, sarà proprio il napoletano Ranieri a essergli compagno affezionato, risultando quasi un suo alter ego: bellissimo, forte, protettivo non per pietà ma per sincera dedizione: «Andiamo a Napoli che l’aria là è buona», gli dice. Questa è una frase che non lascia indifferenti; penso alla monnezza, alle enormi discariche abusive e illegali, all’amianto che è nell’aria, ai roghi tossici della Terra dei Fuochi che da anni sfigurano, inghiottiscono il paesaggio campano.
Sublimi, apocalittici i versi che echeggiano per bocca del poeta durante lo scorrere delle immagini. La ginestra soprattutto, con lo «Sterminator Vesevo», composto nel 1836, a Villa Ferrighi.