Un'opera inedita in via di formazione
Sofocle in divenire
Succedeoggi pubblica in esclusiva il monologo in versi di Roberto Mussapi, composto pochi giorni fa in occasione di una giornata di studi dedicata al drammaturgo greco. Ecco com'è andata...
Si è svolto a Torino, il 4 novembre scorso, su iniziativa di Giulio Guidorizzi, “Il Sophocles Day”. Alla giornata di studi sul drammaturgo greco sono intervenuti, oltre allo stesso Guidorizzi, Lowell Edmunds, Angela Andrisano, Chiara Lombardi, Emily Allen-Hornblower, Robert Wallace e Michelangelo Bovero. Il poeta Roberto Mussapi è stato invitato a concludere i lavori con un monologo in versi composto per l’occasione: “Omaggio a Sofocle”. Succedeoggi lo pubblica in esclusiva, con un’introduzione nella quale Mussapi racconta la nascita del suo poema.
In occasione del convegno su Sofocle, ho scritto e letto questa prima parte di una sorta di poema-monologo, voce narrante Ulisse. Fui invitato al convegno solo sette giorni prima che si svolgesse, il martedì precedente. Mi telefonò Giulio Guidorizzi, in seguito a un’intuizione mattutina. Ritenni assolutamente normale che non ci avesse pensato prima: non sono né uno studioso di Sofocle né un grecista, ma un poeta e drammaturgo. Per questo trovai felicissima l’intuizione e accettai al volo. Inoltre mi fido di Guidorizzi a priori, è un’anima affine, certo un grecista, ma molto di più: come ho già scritto, uno dei più profondi indagatori dell’anima, partendo dal mondo greco. Sulla scia di Kereny e Vernant. Il convegno, tra l’altro, sarebbe stato molto ricco; a Torino ho imparato qualcosa.
Ma torniamo al punto di partenza. Mi si chiedeva un omaggio costituito dalla lettura di alcune poesie tematicamente intonate alla tragedia. Fa parte dei fondamenti del mio lavoro dire dei no, e complementarmente quando dico sì lo faccio a piena voce, insomma o rinuncio o mi butto. Non mi accontentavo di una lettura di miei versi, editi o inediti, comunque già esistenti. Speravo di riservare questa lettura, su cui ero tranquillo, alla fine del mio intervento. Diciamo gli ultimi cinque minuti dei quindici. Su questo avevo le idee chiare. Quei cinque minuti conclusivi sarebbero stati dedicati alla lettura di Parole del tuffatore di Paestum, da tempo edita e ripubblicata, incisa su molti cd. Per concludere intendevo andare sul sicuro. Prima mi lasciavo uno spazio di dieci minuti: o poesie edite che avrei scelto il 3 novembre, o sarebbe nato qualcosa di nuovo, scritto appositamente per l’occasione. Se fosse venuta l’ispirazione. La quale, credo, pur capricciosa, non è insensibile ai voti di chi la invoca. Speravo in un omaggio puntuale, che non si limitasse a una lettura di mie poesie edite, su temi generalmente sofoclei. Molto presenti nella mia opera, a partire dal tema del passaggio da vita a morte, il mito fondante della sepoltura dei corpi da cui ha origine, nella mia linea Vico-Foscolo-Coppens-Ries, l’Homo Religiosus, precedente, secondo una mia idea senza prove, lo stesso Homo Abilis.
Ma potevo solo pensarci fuggevolmente, ero concentrato su un lavoro che stavo ultimando e non potevo distrarmi. Solo il 1 novembre, dopo pranzo, ero libero di riflettere sulla nuova, eventuale, imminente avventura. Quel giorno e quello successivo elaborai la storia, verso il tramonto del giorno dei Morti iniziai a scrivere i versi. Come tutti pensavo, quel giorno, ai miei morti e, in particolare, a mio padre. Che mi ha sempre sostenuto e aiutato. Cominciai a scrivere. Il 3 novembre, a sera, avevo ultimato una prima parte di quello che si rivelava appunto un monologo in versi, in cui la voce narrante di Ulisse (centrale nella tragedia sofoclea Aiace) recita, immedesimandosi, e divenendo loro voce, parole di Antigone, di Aiace e del coro delle due tragedie. La parte scritta e salvata occupava esattamente 10 minuti, come mi ero prefisso, a cui sarebbero seguiti i cinque “sicuri” su Il tuffatore di Paestum.
Quanto ho letto, che ha molto colpito un piccolo e intenso pubblico di convegnisti e studiosi, pubblico ben disposto e generoso, non è perfettamente compiuto. Ma sta in piedi. Come si vede (e sente), manca il collegamento tra la voce narrante di Ulisse e quella di Antigone. Arriverà. In questa fase, piuttosto che escogitare uno stratagemma (in poesia è un reato) ho lasciato il vuoto tra una voce e l’altra. Come se ora fossero due brevi monologhi. Poi giungerà, credo, unità, e i difetti visibili mi auguro scompariranno. Mi auguro anche, da parte dei lettori di Succedeoggi, la stessa generosa comprensione degli ascoltatori di Torino, consapevoli di trovarsi di fronte a un lavoro in stato nascente. Ma credo possa essere utile vedere un’opera mentre si sta formando.
Homage to Sofocle
Passati pochi anni, qui a Itaca
non riesco più a distinguere il racconto
di qualche cosa che mi accadde nel viaggio
o il puro avvenimento dentro un sogno.
Solo una notte mi fu dato e concesso,
quando tornai a Itaca, e Penelope
mi mise alla prova con l’albero, il letto,
e come ispirato dalle sue antiche radici
le raccontai tutto, anche in un ordine
simile a quello del tempo conosciuto,
nella realtà del mercato, dei numeri,
il peso delle capre, prezzo, l’età degli agnelli…
ma per il resto credo abbiano ragione i Barbari
che scrutano a Oriente i disegni degli astri
e studiano in quelle rotte il nostro tempo.
Così, almeno, ricordo il mio viaggio
che alcuni ascoltandomi dicono ritorno,
che a me, ora più vecchio e forse più saggio
pare piuttosto un ricominciamento.
Ricordo che dopo tanti naufragi
e ferite, e pene, e perdite angosciose,
giunsi su un legno come stessi volando
dall’isola dei Feaci, da Nausicaa,
come se Alcinoo mi avesse rigenerato nel sonno.
Ma storie di buio e opacità interrompono
quello che a orecchie ingenue sembra un ritorno,
e che in realtà è l’inizio del mio viaggio.
Indietro, nel baratro della memoria.
Dove solo oserò perdermi
io che non mi persi nei Lotofagi,
e sfuggii le sirene con il trucco:
qui, nel buio dell’intraessere, mi perdo
e so che è necessaria questa perdita
per ritrovare la via intravista in sogno
ogni volta che stavo per cedere
e in sogno vidi le stelle dei barbari
e una baluginante vita oltre la vita,
e qualcosa del cielo diverso dall’Olimpo.
Che avrei raggiunto attraversando il buio,
ferito per sempre dalla vanità delle ombre,
Achille che biascicava d’essere nulla,
mia madre che tre volte inutilmente
tre volte abbracciai e non avvinsi.
Fu allora, in quel vuoto disperato abbraccio
a lei che era stata ed era mia madre
che io conobbi il mio nome: Nessuno.
E intravidi tra le lacrime il mio compito,
di traversare il buio, compiere il ritorno,
uscire fuori a riveder le stelle.
Verrà quel tempo, non so quando.
Quando sarà esperito questo tempo,
e la memoria del buio e la sua compresenza.
I miei naufragi, e tutte le nostre perdite
e la rovina di Agamennone e degli altri,
tutto è causato dallo scempio di Ettore
che Achille straziò offendendo il cadavere.
Quando morì Aiace, chiesi a Agamennone
di non lasciare insepolto il suo corpo:
era il mio nemico, da vivo
non poteva esser nemico da morto.
Lo odiavo, ma quando odiarlo era onesto.
“Pensa all’uomo spregevole a cui fai questa grazia”,
disse Agamennone, risposi
“Mi fu nemico, ma era un valoroso.
Il suo valore trionfa sul mio odio.
Seppellisci quel morto:
un giorno anch’io arriverò alla morte”.
Antigone
Guardatemi per l’ultima volta, voi della mia terra.
Ora che vedo il sole per l’ultima volta
e poi per me non sarà altro che notte.
Ade che induce il sonno mi porta viva
presente a me stessa alle sponde di Acheronte,
io che non avuto un uomo sarò sua sposa
moglie del buio, ancella dell’ombra.
E non importa che io scenda onorata
come ripete il coro, incolume
e nessun oltraggio abbia subito il mio corpo:
oltraggio è il carcere in forma di tomba
a cui mi ha dannato una legge perversa,
la legge del sovrano che cancella la legge
divina e naturale degli umani.
Io me ne vado così, in una grotta buia,
rinchiusa nella pietra dell’origine,
fino a che si farà pietra anche il mio cuore
disidratato e più freddo di un osso.
Io me ne vado dal mondo ma non morendo.
Mi attende una morte in vita o vita in morte,
accanto alla terra delle piante e degli uccelli,
a contatto col fondo buio della terra.
Questa è condanna alla stirpe umana, io preveggo,
chi nega la sepoltura come ha fatto Creonte
condanna la stirpe umana a vita in morte.
Il sacro confine tra i due regni è violato.
La morte ora sale fumigando dagli abissi del fondo
e come un morbo invisibile si diffonde
sulla terra dei vivi, della luce.
Fumiga sinistra tra le foglie d’erba,
intossica le acque di ruscelli e sorgenti,
il patto tra i due regni è stato infranto.
Io porto con la mia scomparsa il vaticinio
che questa terra è marcia e sarà maledetta.
Ci sarà un altro tempo, lo vedo e sento,
in cui i fiori rinasceranno puri e gli uccelli
intoneranno di nuovo felici i loro canti.
Ma quel tempo verrà quando io, ormai ombra
non sarò che un ricordo, un incubo, la memoria
del peccato d’origine, lo scempio
di Ettore, il non seppellimento di Polinice
di quello che vivo era il mio,
che morto è diventato nostro fratello.
(4 Novembre 2014)