Inaugurata la stagione operistica capitolina
Rusalka, alias di Aida
Dopo le amare vicende finanziarie e sindacali (ora risolte) e l'abbandono di Riccardo Muti col suo programma verdiano, l'opera di Antonin Dvorak è stata applaudita con convinzione alla prima del Teatro dell'Opera di Roma. Un buon auspicio per i bilanci in rosso...
Dieci minuti di applausi e neanche un fischio. Parecchi spettatori in piedi, a battere le mani. E il sorriso rinfrancato dei cantanti del coro, mai tanto vicini alla ribalta, sistemati in gruppo colorato subito dietro i protagonisti. Sono i “titoli di coda” non soltanto di Rusalka, il melodramma del ceco Antonin Dvorak che ha aperto giovedì la stagione del Teatro dell’Opera di Roma. Lo sono anche della contorta e spesso drammatica vicenda vissuta a partire dall’estate scorsa dall’ente lirico capitolino. Un “incubo” avviato con lo sciopero di coro e orchestra che disertò le rappresentazioni estive a Caracalla, quelle più attese dai turisti internazionali e dalla Fondazione proprio per far cassa e rintuzzare l’eterno deficit. Continuato con le dimissioni di Riccardo Muti, l’artefice della rinascita del Costanzi, il direttore onorario a vita, che ha improvvisamente annullato il suo podio per le recite in programma, a partire dall’Aida di avvio stagione 2014-2015. Prolungatosi, l’incubo, con la guerra sindacati-Cda (e specificatamente con il Sovrintendente Fuortes), e lo iato più avvilente: l’annuncio da parte dei vertici del licenziamento di Coro e Orchestra per far fronte al buco di bilancio non più sostenibile. Sono seguite lunghe settimane di schermaglie, l’ipotesi di esternalizzazione di Coro e Orchestra, quella, ancora più brutale, della chiusura dell’ente lirico capitolino, con buona pace del sindaco Marino, mai veramente entrato con risolutezza nella vertenza. Infine, appena una manciata di giorni fa, la svolta ormai inattesa e che sarebbe dovuta arrivare prima, senza causare tanti guai all’immagine dell’Ente Lirico: l’accettazione, da parte dei rappresentanti sindacali di Coro e Orchestra, dell’accordo proposto dal Cda. Che comporta, è vero, sacrifici per i dipendenti dell’ente lirico. Ma permette il risparmio di tre milioni di euro considerati necessari per la sopravvivenza del Costanzi, che salva dunque i posti di lavoro e ha reso possibile, infine, il debutto di ieri.
Una tragedia virata nel lieto, meglio rasserenante, fine. A differenza della favola messa in scena, questa Rusalka di Dvorak (repliche: stasera, 29 novembre, e 2, 4, 7, 10, 12, 14 dicembre), vanto della cultura boema e della musica del Nord est europeo quanto Traviata o Tosca lo sono per l’Italia. Un’opera poco conosciuta, ancorché passata al Costanzi nel 2008. In lingua ceca, pur con sovratitoli in inglese e italiano. Con un cast di cantanti dell’Est europeo non troppo noti, un direttore d’orchestra norvegese, un regista nato in Tunisia, formatosi in Francia, residente a Roma. Una scommessa, insomma, pur nel nuovo allestimento, dovuta anche alla necessità di diversificare e dunque allontanare paragoni rispetto al binomio Muti-Aida che mesi fa – tempo apparentemente lontano anni luce – figurava come primo titolo del cartellone.
Bè, diciamo pure che la scommessa questo tormentato Costanzi l’ha vinta. La scelta coraggiosa e anticonvenzionale ha premiato il Teatro, così come le prove estenuanti che hanno impegnato Coro e Orchestra tornati al lavoro da dieci giorni e capaci di dimostrare la loro valentia. Nella serata della prova del nove tutto o quasi ha funzionato. Eppure la storia di Rusalka è assai lontana dalla nostra sensibilità, piuttosto immersa nelle brume e nelle oscurità nordiche. La protagonista è una ninfa che vive tra le rive e le profondità di un lago, insieme alle fanciullesche sorelle, protetta dal padre re delle acque e, seppur burberamente, da Jakababa, una strega ora capace di fare la maglia, ora impegnata nella diabolica fabbricazione di filtri magici. A lei, e contro il volere del padre, Rusalka si rivolge per trasformarsi in donna e far innamorare il principe visto spesso aggirarsi tra i boschi. La trasformazione le costerà però, avverte la strega, la perdita della parola. E se l’amore duraturo non sboccerà, anche quella della vita, sua e dell’amato. Rusalka accetta l’alea. Ma comincia la discesa agli inferi. Il principe se ne invaghisce, la porta a palazzo, poi – sconcertato dalla riluttanza verginale dell’adolescente – le preferisce, proprio il giorno delle nozze, la carnalità di un’altra. La ninfa-donna torna nei boschi. Però non ha più identità e la rifiutano anche le sorelle. Né la consola il ritorno del principe, ora convinto di quanto valga la purezza del suo sentimento. Moriranno abbracciati e coperti dalle acque.
Cotanto immaginifico plot andato in scena per la prima volta nel 1901 mischia le suggestioni metamorfiche della Sirenetta di Andersen, la purezza di una belliniana Norma (anche in Dvorak la protagonista leva un canto alla luna), le atmosfere wagneriane sostenute da note talvolta impetuose talvolta ammiccanti, come quando la strega confeziona il filtro magico. Eppure è stato allestito dal regista e scenografo Denis Krief (che autarchicamente si è occupato anche dei costumi e delle luci) con spartana e insieme efficace maniera. Una sorta di scatola di legno chiaro, come nella claustrofobia di un incubo, contiene l’intero spettacolo, trasformandosi appena in bosco, o stagno, o palazzo reale grazie al calar di quattro pannelli. I personaggi compaiono e scompaiono da due botole, simbolo dei lacustri abissi. E indossano abiti minimali, addirittura una candida tuta o un trench di pelle nera, come le ondine e lo Spirito dell’Acqua.
E se tanta parsimonia (obbligo imposto dalla melodrammatica spending review) nelle prime scene disorienta lo spettatore, via via le scelte registiche lo prendono nell’ingranaggio dei significanti pregni di significato. Il baule nel quale Rusalka rinserra, con i giochi e perfino il cuscino abbracciato nel letto, la propria adolescenza; o il coltello che resta conficcato nella parete di legno, illuminato da un piccolo quadrato di luce, proprio sopra quel baule, a testimoniare il destino di amore e morte che segna i due giovani protagonisti. O, ancora, l’intrigante scena del ballo a palazzo, nella quale gli invitati (briosi danzatori con la coreografia di Denis Ganio, gasati coristi in abiti moderni) sono uno stuolo di borghesi incapaci di accettare la diversità fisica e caratteriale della ninfa fatta donna. Alla quale dà voce potente, salda e capace di venature malinconiche il soprano bulgaro Svetla Vassileva, affiancata dal sicuro principe, il tenore russo Maksim Aksenov, e dai bravi Steven Humes (lo Spirito dell’Acqua), Larissa Diadkova (la strega Jezibaba), Michelle Breedt (la principessa straniera). Diligente e niente più la bacchetta di Eivind Gullberg Jensen. Soddisfatto, oltre al pubblico, il Sovrintendente Carlo Fuortes, che ha accolto gli illustri ospiti tra i quali Bruno Cagli, il presidente dell’Accademia di Santa Cecilia che lo stesso Fuortes amministra con successo. E il ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan, seduto nel palco reale stavolta disertato dal presidente Napolitano e dal sindaco Marino. Una presenza, quella dell’economista, da leggersi come benaugurante per i bilanci in rosso del Teatro dell’Opera di Roma.