Visto alla Vie dei Festival
Recitare, camminare
Una camminata per i vicoli di Roma diventa un viaggio nello spazio interiore, alla ricerca di un senso dell'essere e del riflettere. È la performance "The walk" di Cuocolo/Bosetti
L’appuntamento è fissato per le 16.30 a piazza Campo de’ Fiori. Per essere una domenica di novembre, l’aria è piuttosto tiepida e il centro di Roma pullula come sempre di persone, rumori, profumi. Siamo un piccolo gruppo di spettatori “anomali”, decisi a seguire uno spettacolo anch’esso “anomalo” che ci condurrà per oltre un’ora dentro il cuore della città rinascimentale, scatenando in noi riflessioni, emozioni, distrazioni legate, ognuna con un proprio perché, all’esperienza stessa del camminare. Si intitola infatti The Walk la performance itinerante che la compagnia Cuocolo/Bosetti IRAAA Theatre (fondata trentasei anni fa da Renato Cuocolo proprio a Roma e poi attiva per decenni in Australia, dove ha ricevuto premi importanti e realizzato lavori molto fortunati come, tra gli altri, The Secret Room) ha proposto nei giorni scorsi all’interno della vetrina Le vie dei festival.
L’idea centrale di questo originale lavoro, prodotto nel 2013 (a un anno dunque dal rientro in Piemonte della compagnia) e già sperimentato altrove, è quella di un’esplorazione dello spazio urbano, inteso come dilatazione architettonica di uno spazio tutto interiore e mentale, condotta attraverso le traiettorie di una storia a suo modo archetipica, raccontata dall’attrice Roberta Bosetti, che il pubblico ascolta in cuffia mentre passeggia. Già la “con-fusione” iniziale ci aiuta a capire che stiamo intraprendendo un percorso sensoriale a più livelli: sentiamo la voce ma non vediamo la performer, nascosta tra i tanti passanti che affollano la piazza e si muovono intorno alla statua di Giordano Bruno. Cerchiamo, guardiamo, scrutiamo. E intanto siamo guardati con occhi interrogativi dagli altri, dagli estranei, alcuni dei quali convinti che si tratti della scena di un film o di un gruppo-vacanza poco compatto. In realtà siamo tutti concentrati nell’intercettare lei, quella donna alta, bionda, elegante che, con lo zaino in spalla e un microfono alla bocca, ci chiede insistentemente: «Sei qui? Cosa vedi?», per poi sentenziare con puntiglio: «La tua passeggiata è iniziata quando sei uscito di casa».
Basta qualche minuto per intuire che questa camminata ci sta conducendo in realtà ad una discesa – o risalita – nel pensiero, nel senso della morte, nel contatto personale che abbiamo con i nostri ricordi, con le nostre paure, con le persone che conosciamo e che amiamo. «Camminare è una modalità del pensiero, un pensiero pratico», ci suggerisce la nostra guida, e noi la seguiamo fiduciosi, affidandoci alla sua storia. Che è poi la storia di una perdita, di un amico/ospite uscito di casa per una passeggiata – appunto – e morto tragicamente, inaspettatamente, incredibilmente. Abbiamo bisogno di silenzio. L’uso delle cuffie sembra proprio funzionale a farci costruire una fruizione totalmente personale, intima, e mi viene subito in mente la splendida trasposizione olofonica dell’Elettra realizzata da Andrea De Rosa qualche anno fa. Le sensazioni sono tante e diverse, e solo quando giriamo per Vicolo delle Grotte e poi per Vicolo delle Madonnelle ci rendiamo conto che questo camminare è un camminare della testa. O meglio: una processione di anime perse – ma proprio per questo vive – che cercano in questi luoghi, in questo “everywhere” concreto e diverso ogni volta che lo si attraversa, delle risposte di senso a domande troppo grandi e misteriose per avere soluzioni. «La voce è la prima cosa che si dimentica di una persona»: e allora camminare significa anche riappropriarsi di quella voce, ritrovarla al di fuori, cercarla in via San Paolo alla Regola, in piazza di Santa Maria in Monticelli. Questa città irregolare e bizzarra nasconde insomma i nostri dolori, i nostri incontri, la nostra (in)felicità, i nostri smarrimenti, il nostro esserci. Questa città irregolare e bizzarra in fondo siamo noi; e noi siamo i nostri confini con-divisi con gli altri, con chi ci dà consistenza e ci fa sentire vivi. È proprio la connessione tra lo spazio e l’umano la scommessa più ardua di questo lavoro, nel quale possiamo facilmente riconoscere alcuni tratti della ricerca teatrale (anche italiana) degli anni ‘70 e ‘80 (il teatro fuori dal teatro, gli happening, la performance teorizzata da Schechner), riletti però con un risvolto decisamente più sommesso e più intimo.
Sorretta da un testo quasi filosofico, che a tratti cede tuttavia al lirismo e all’enfasi, la Bosetti recita il suo smarrimento con una solennità controllata e mesta. Il suo racconto è infarcito di ripetizioni, di frasi-chiave che tornano e si rincorrono. Forse in un alcuni punti ci sarebbe bisogno di maggiore secchezza, ma il complesso della scrittura e dell’interpretazione funziona, emoziona, arriva con estrema chiarezza. Tanto più quando ci fermiamo in una galleria d’arte di Via degli Specchi per ascoltare, assorti nella semioscurità di quel luogo chiuso, un sogno, un presagio, un tonfo dell’anima che vorrebbe quasi rappresentare un’altra modalità di vedere il mondo, di sentirlo, di occuparlo partendo dall’inconscio e dal mistero.
La domanda fondamentale insomma resta sempre quella: chi siamo? Ripreso il cammino per strada, i passanti continuano a guardarci: già, chi siamo? Ci vengono in soccorso i ricordi – sembra volerci dire The Walk – ma è comunque un senso di perdita, di smarrimento quello che dobbiamo accondiscendere camminando, perché solo così ci si può ancora meravigliare («che è già qualcosa») e si può tentare di vedere/sentire l’invisibile. Non a caso la nostra passeggiata termina a Lungotevere dei Vallati, davanti a Ponte Sisto, mentre lei, la nostra voce, la nostra guida, compita e cauta, si perde al di là del fiume.
La fotografia è di Ilaria Costanza