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La prosa di Fleur
Affilato, preciso, uno stile costruito su particolari minuti: il ritorno in libreria della Jaeggy con “Sono il fratello di XX”. E per gli appassionati del brivido otto brevi avventure del giovane Montalbano e Nero Wolfe alle prese con una “Palla avvelenata”...
Sospensione – La prosa affilata, precisa e magrissima di Fleur Jaeggy, zurighese di origine e italiana di adozione, indaga eventi apparentemente minuti e marginali, eppure ogni sua frase, magari solo di due o tre parole, rimanda a ben altro senza che appaia la necessità di svelarlo nella sua interezza. E così il suo stile, a furia di scarnificazioni lessicali, diventa elegantemente imperioso. Nella sua ultima raccolta di racconti, Sono il fratello di XX, edito da Adelphi (129 pagine, 15 euro), si addentra nelle ombre sul non detto, sul silenzio che potrebbe essere urlante. Nel racconto intitolato “Nomi”, una donna visita il campo di concentramento nazista di Birkenau. Durante il tragitto, in pullman verso Auschwitz, avverte che i viaggiatori erano «arroganti con tutti». Il guidatore «guidava troppo piano». Alcuni raccontavano barzellette, «ridevano feroci». I crematori rimasti in piedi, l’ordine, la pulizia. La sua amica le dice «Es ist Lerche». L’altra, che sa poco il tedesco, sa però che Lerche significa cadavere. Blocco numero sei: «Le sembrava che le lettere dei nonni arrivassero ancora. Stavano bene, lavoravano e il vitto era buono. Anche quando li separarono. Anche quando non tornarono». In quei fogli di carta, «una sottile siepe di parole non dette, censurate». Una delle due cammina incerta, è cieca e ha un bastone bianco: «forse percepiva ciò che era esposto e immaginava». Riflette sui «nomi in transito, tenuti per mano. Nomi che esistono perché scritti. E scritti ci guardano fissi».
Due pagine della Jaeggy sono dedicate a un gatto per strada. Il felino è «terribilmente assorto e vigile nel puntare la preda. O nell’artigliarla». La vittima è una farfalla, ma il gatto ha un improvviso momento di estraniazione mentre il volatile «danza la sua agonia». Il gatto si distoglie, pensa ad altro, guarda altrove: «È una mossa strategica. Fa parte di un congegno di precisione. Animali, come ha osservato Kleist, che prendono una distanza, hanno un momento di Ubersprung: s’allontanano dall’idea della morte». La narratrice cita Thomas de Quincey quando accennò, in un racconto, alla «dark frenzy of horror, all’oscura frenesia dell’orrore». Che ci sia un legame straordinariamente sottile tra i racconti cui abbiamo accennato?
Il giovane commissario – Andrea Camilleri riprende in mano il suo personaggio, Salvo Montalbano, collocandolo nei primi anni della sua carriera. La prima volta era solo un “vice” e operava all’interno della Sicilia. Ora è a Vigata ed è stato promosso. È una raccolta di otto racconti pubblicati dalla Sellerio e intitolata Morte in mare aperto e altre indagini del giovane Montalbano (314 pagine, 14 euro). Vista la brevità di ognuna delle vicende narrate, l’andamento è necessariamente teatrale. E ben riuscito dato che lo scrittore siciliano ha insegnato per anni alla scuola d’arte drammatica. Sono racconti per così dire “strizzati”, per necessità. Molto più rari, per esempio, le descrizioni degli ambienti e l’approfondimento dei caratteri. Schizzi che avrebbero potuto diventare quadri a dimensione normale. Camilleri non è avaro di storie, anzi compie, tutto sommato, un’operazione narrativamente antieconomica perché quasi tutti gli otto racconti avrebbero potuto essere trasformati in romanzi (magari più brevi del consueto). Nel primo, intitolato “La camera numero 2”, al suo fianco c’è Livia che, detto sinceramente, è assai meno petulante rispetto all’oggi. Tra le altre cose fa un’osservazione interessante, ossia che il suo Salvo è destinato a diventare sempre più abitudinario. A cominciare dai ristoranti che sceglie. “La camera numero 2” riguarda un incendio in un modesto albergo il cui proprietario, si saprà poi, è quasi deciso a vendere. Poche camere, pochi clienti e quindi poco reddito. La stanza 2 è a piano terra. Gli altri ospiti sono al primo piano. Il fuoco divampa quando Livia e Salvo passeggiano romanticamente vicino all’edificio. L’eterna fidanzata, mentre il commissario s’intrufola nella pensione, rimane in macchina perché ha paura del fuoco e nota un’auto che velocemente prende la strada per Montelusa. Le ipotesi sull’incendio (doloso) sono tante, e la vita di ogni ospite è vagliata attentamente. Salvo eccezioni, il poliziotto scopre particolari poco edificanti, affari di mafia compresi. Invece, come spesso accade e si dice in Sicilia, tutto nasce da una “questione di corna”.
Frizioni – Rex Stout ha scritto 43 storie imperniate su Nero Wolfe, il più abile, il più scorbutico e il più grasso tra gli investigatori di New York. La casa editrice Beat poco alla volta li sta ripubblicando tutti (o forse tutti). L’ultimo in libreria s’intitola Palla avvelenata (188 pagine, 9 euro). E c’è una sorpresa. Archie Goodwin, il fedele (ma anche molto ossequioso) assistente di Wolfe, stavolta si ribella al cinismo del suo capo e pure alla sua taccagneria. Mentre l’investigatore dalla mole imponente, che trascorre intere ore, a cadenze rigorosamente fisse, nella sua serra a curare il suo vero amore, ossia le orchidee, entra, con molta disinvoltura, la quasi venticinquenne Priscilla Eads. La quale non chiede che s’indaghi su un problema della sua vita, ma semplicemente chiede ospitalità per qualche giorno. Fino a quando cioè, al compimento dei 25 anni, disporrà interamente del cospicuo patrimonio lasciatogli dal padre che nel testamento aveva scritto regole precise: la figlia, alla data indicata, si sottrarrà dalla tutela dell’amministratore della sua industria tessile, la Sofddown. Archie, pur tra mille perplessità l’accoglie e le dà una delle camere a disposizione. Quando Wolfe viene a saperlo s’infuria, pur non lesinando una cena in camera. Tra il detective, il cui sorrisetto «non si sa mai che cosa significhi» e Goodwin tira una brutta aria. C’è divergenza di opinioni. Nel frattempo la signorina Eads viene pregata di lasciare l’edificio la sera stessa, anche se l’orologio segna quasi la mezzanotte. Woolfe è irremovibile: se ha un incarico preciso si mette al lavoro, ma se si tratta soltanto di proteggere qualcuno, in men che non si dica mette l’ospite alla porta. Archie l’accompagna fino a un taxi, sentendosi fortemente in colpa.
Il giorno dopo i giornali riportano due notizie: l’uccisione (strangolamento con un filo di ferro) della cameriera di Priscilla e successivamente il ritrovamento del cadavere dell’avvenente e ricca Eads, a casa sua. Gooodwin, scandalizzato per l’atteggiamento per nulla emozionato del suo datore di lavoro, esce dalla casa deciso a indagare da solo. E fa irruzione (i detective privati americani evidentemente hanno un po’ troppa libertà di manovra; oppure l’autore la fa troppo semplice) nella sala delle riunioni della ditta e fa una mitragliata di domande. Ben sapendo che ognuno di loro poteva avere una buona ragione per uccidere visto che se Priscilla fosse morta prima dei 25 anni, una certa somma sarebbe andata a finire nelle tasche dei membri del consiglio di amministrazione. L’avventura donchisciottesca di Archie si snoda mentre Wolfe continua ad «appoggiarsi sullo schienale con gli occhi chiusi».