Viaggio nello Sry Lanka
L’inferno in cartolina
Nelle grotte di Aluvihara l'iconografia quasi grandguignolesca degli inferi convive con la quiete del Buddha. Solo in apparenza è una contraddizione: l'arte ha sempre raccontato una sua religione parallela
Chissà perché le immagini che più mi trascino dentro al ritorno da una lunga vacanza a Sry Lanka sono le scene di un inferno dipinte sulle pareti di una delle grotte di Aluvihara, un monastero rupestre nel cuore dell’isola che fu la culla della cultura buddista. Un po’ il contrasto stridente col panorama da ultimo paradiso di questo paese d’Oriente: le palme, la giungla, gli elefanti che pascolano liberi, lo sfondo di montagne alte e coperte di vegetazione che svettano nella nebbia come miraggi, tutto attorno spiagge di sabbia bianca e un mare verde brodo e increspato di onde.
Insomma una diversità da cartolina turistica con cui non si può non fare i conti. Più ancora, la mia sorpresa di occidentale di fronte alla rappresentazione di un incubo che ha le stesse fattezze di quelli partoriti dall’immaginario cristiano. Agnizione che restringe le distanze, annulla ogni illusione di evasione e di fuga. Già perché i diavoli effigiati molti secoli fa su queste pareti mi sgambettano davanti maligni ed irsuti come quelli di casa nostra. Ingoffiti da una pelliccia di peli neri invece del rosso d’ordinanza dei nostri demoni, al posto delle corna zanne arcuate da cinghiali, infliggono ai peccatori gli stessi supplizi: impalano le donne, spintonano, torturano e smembrano gli uomini. Meno eleganti e fantasiosi forse di quelli di Bosch, una versione splatter alla Tarantino, ma altrettanto minacciosi e crudeli dell’habitat che li contorna: pentoloni ribollenti, nebbie e fumi, piante spinose contro cui spingono i condannati.
Le pene non ci indicano i peccati da espiare. Per quelli bisogna ricorrere alle immagini da prontuari dell’errore che si trovano ad ammonire i trasgressori in molti templi buddisti di Sry Lanka, affrescati a tinte vivaci e sceneggiati con tratti da fumetto in templi sicuramente meno antichi – compreso quello di Kandy, che è un po’ come la San Pietro cingalese perché custodisce la più sacra reliquia di Buddha, un dente scampato al suo rogo funebre – l’intrattenere relazioni con prostitute, tradire gli amici, uccidere, rubare e così via. Un abbecedario delle colpe da parroco di campagna così ingenuo che accentua l’orrore e la sproporzione delle punizioni effigiate ad Aluvihara. I peccatori trattati come guerrieri nemici da annientare senza pietà.
In una grotta vicina dà spettacolo il primo piano di un prigioniero di guerra legato a un palo e squartato come un vitello. È la foto ricordo preferita dai turisti. Scatti a ripetizione prima di uscire nello spiazzo tra le rocce dove troneggia una statua bianca di Buddha, sguardo fisso, impassibile. Ma io che c’entro?, sembra dirci con il suo impenetrabile distacco. Già, che c’entra il povero Siddharta con questa pantomima della paura, con questo Grand Guignol da marchese de Sade, con queste evocazioni degli Inferi? Lui che predicava la distanza dalle passioni come via verso l’assoluto, che disapprovava persino gli asceti che per eccesso di zelo umiliavano con insostenibili rinunce il proprio corpo? E in effetti nulla è più lontano dalla sua saggezza dell’Inferno, di questa geografia e localizzazione del Male e della Colpa fuori dalla nostra coscienza in evoluzione, dal nostro Sé in gestazione. A dirlo è esplicitamente il Dalai Lama del Tibet in una sua conversazione, facilmente rintracciabile su Internet, con un sacerdote cattolico.
Eppure in questo monastero che conserva e ora sta tentando di recuperare uno dei più antichi repertori di testi di massime buddiste, distrutto dagli inglesi a metà Ottocento per reprimere una rivolta indipendentista, la crudeltà dell’inferno convive e viene esposta senza alcun avvertimento, alcun distinguo, accanto alle icone sorridenti, accucciate o sdraiate, di Buddha. Un’incongruenza, come il culto stesso dell’Illuminato che ad uso dei fedeli moltiplica a dismisura le icone sue e dei suoi avatar: nelle grotte, nei templi, su pareti di roccia le immagini del Buddha sono scolpite in decine di cloni affiancati, spesso indistinguibili l’uno dall’altro, grani di rosario da accarezzare con la mente più che figure di devozione come i nostri santi. Forse un modo per sottolineare l’ubiquità e il mistero di un maestro spirituale a suo modo ineffabile eternato da continue reincarnazioni. Forse un modo per ricordarci e imporre con questa iconografia modellata sulla ripetizione come l’eco di un mantra la disciplina del distacco e del disincanto che propugnava.
Ma l’adozione dell’Inferno sembra di più. Un tradimento, un’eresia. È successo ad ogni profeta, ogni predicatore quando il suo esempio e la sua parola si sono fatti religione, chiesa, fede organizzata. Macchine complesse che amministrano promesse e paure per abitare il vuoto della morte e dell’aldilà, confinare la trasgressione, battezzare il Male, arginare il conflitto sociale. Inferno e Paradiso sono nati così. Buddha, a differenza di tutti, aveva rinunciato ad entrambi, ogni uomo arbitro della propria vita. Troppo complicato, troppo sfuggente, troppo utopico e vago il cammino verso l’Illuminazione? Ecco dunque i monasteri di Sry Lanka recuperare con molto realismo l’Inferno. E i pittori raffigurarlo come un campo di battaglia dove tutto è permesso. Anche annientare il nemico. Come ha fatto il governo buddista in carica chiudendo con un programmato massacro di tutti i ribelli la rivolta della minoranza tamil che ha dilaniato il paese per un quarantennio.