Lettera dagli States
I clandestini di Obama
Il tiro al presidente, da parte dei repubblicani e dei nuovi razzisti d'America continua. Stavolta nel mirino c'è la moratoria per gli immigrati: un punto dolente della politica Usa
«Noi non siamo una nazione che caccia coloro che cercano di farcela e di sognare, coloro che vogliono guadagnarsi il loro pezzo di sogno americano. Non abbiamo innalzato la Statua della Libertà con le spalle girate al mondo. L’abbiamo eretta con una luce che lo illumina» ha affermato Barack Obama venerdì scorso in una scuola di Las Vegas, illustrando le sue recenti decisioni sull’immigrazione e sui clandestini. Con un decreto esecutivo il presidente il giorno prima aveva infatti concesso una tregua ai circa 4 milioni di immigrati illegali presenti negli Stati Uniti. In primavera si potranno presentare le prime domande e a chi si qualifica e a chi prova di risiedere nel paese dal 2010 verranno condonati tre anni durante i quali non potranno essere deportati. Si andrà cioè fino al primo anno dopo l’elezione del successore di Obama. Una tregua alla deportazione e alla divisione di molte famiglie, soprattutto ispaniche, i cui figli sono nati nel paese o vi sono stati portati illegalmente.
Così, però, Obama si è tirato addosso l’ira dei suoi acerrimi oppositori repubblicani che di nuovo lo hanno accusato di commettere atti illegali e alle cui reazioni ha risposto duramente, affermando: «Le azioni che sto prendendo non solo sono legali, ma sono azioni prese da ogni singolo presidente repubblicano e democratico nell’ultimo mezzo secolo. E a quei membri del Congresso che mettono in dubbio la mia autorità di fare sì che il nostro sistema di immigrazione funzioni o la mia competenza ad agire dove il Congresso ha fallito, ho solo una risposta: varate una legge». Perché proprio quella manca. A due anni dalla sua rielezione, un tempo durante il quale Obama ha ripetutamente chiesto di far passare una riforma del sistema di immigrazione che permettesse a coloro che vivevano nella clandestinità di poter uscire allo scoperto e regolarizzare la propria posizione, ancora manca un provvedimento legislativo. E proprio a causa dell’opposizione sistematica dei repubblicani. Una cosa che è bruciata al presidente che ambiva a lasciare questo provvedimento come eredità della sua stagione e che invece proprio la scorsa estate è stato bocciato da Capitol Hill nel mezzo di un’aspra battaglia parlamentare guidata dall’ala repubblicana più conservatrice. Proprio da quei Tea Party che in questi anni hanno tenuto in ostaggio l’intero partito e che le recenti elezioni di midterm hanno penalizzato in quasi tutti gli stati. Gli elettori hanno infatti mandato un messaggio al partito repubblicano chiedendo una maggiore duttilità e una maggiore collaborazione con la controparte democratica. Che apparentemente non sembra essere ascoltato.
La risposta di Obama avviene dopo che la reazione repubblicana a questa sorta di aggiramento del potere legislativo da parte dell’esecutivo è stata molto forte e le espressioni usate molto pesanti: «Ignorando la volontà popolare, il presidente Obama ha cementato la sua tendenza all’illegalità e ha perso quel poco di credibilità che ancora gli è rimasta. Ai repubblicani è lasciata pertanto la seria responsabilità di mantenere fede al giuramento che hanno prestato. Noi non verremo meno al nostro dovere, perché la nostra fedeltà è al popolo americano. Noi lo ascoltiamo, lavoriamo con i nostri adepti e proteggiamo la Costituzione» ha affermato John A. Bohener, lo speaker della House of Representative il quale ha accusato Obama di agire come «un imperatore». Anche se, i repubblicani dovrebbero ricordarlo, presidenti come Reagan e George H.W. Bush hanno ambedue firmato decreti esecutivi che hanno protetto gruppi di immigrati dalla minaccia di deportazione. E recentemente la Casa Bianca ha anche pubblicato statistiche che mostrano che nel caso di Bush è stato protetto lo stesso numero di immigrati illegali di Obama.
Bisogna però dire che alcune critiche ad Obama fanno riflettere sui limiti del potere del presidente e sui risultati che con i decreti presidenziali si possono ottenere. Perché se da un lato questo decreto offre una possibilità a milioni di persone di uscire da uno stato di limbo e di paura continua, non offre loro uno stato legale permanente e può essere eliminato dal prossimo presidente in carica. Inoltre questo provvedimento non risolverà le gravi falle che l’attuale sistema di immigrazione presenta, prima fra tutte quella della sicurezza dei confini, poi quella dell’emissione di nuovi visti e infine quella dell’assunzione da parte delle imprese private di immigrati illegali. Tutto ciò potrà essere fatto solo da una legge, ma il presidente, stanco di attendere qualcosa che sembrava non accadere ormai più, si è spinto ad estremi rimedi, additando così la necessità di risolvere il problema. Cosa che tuttavia getta una luce un po’ inquietante sull’uso dei decreti presidenziali che dovrebbero essere sempre molto ristretti e limitati.
In un editoriale collettivo del Chicago Tribune del 19 novembre si legge tuttavia perché almeno questo decreto sembra avere una sua giustificazione: «Cosa impedirà al prossimo presidente di fare lo stesso? – si chiede il giornale – La discrezione dei decreti presidenziali dovrebbe infatti riguardare solo lo stabilire priorità su come impiegare risorse limitate e non su come mettere in atto de facto leggi o aggirare quelle che non piacciono al presidente. Certo coloro, come i repubblicani, che parlano di “crisi costituzionale” dovrebbero ricordare che avrebbero potuto eliminare questa circostanza sistemando quella legge che Obama adesso sta cercando di aggirare. Per questo si dovrebbero solo vergognare. I repubblicani della House of Representatives, che sanno che il paese ha bisogno di una riforma dell’immigrazione e sanno anche che il futuro del loro partito dipende proprio da questo, hanno fatto solo promesse, ma alla fine hanno fallito. Vorremmo cogliere questa opportunità per ricordare loro che lo possono ancora fare».
E dunque i repubblicani come risponderanno a queste richieste che non sembrano venire solo dalla stampa, ma anche da una parte del loro elettorato? Si sono di nuovo sentite minacce di mettere in atto uno shutdown del governo, di citare Obama in giudizio e di chiederne addirittura l’impeachment. Un comportamento pregiudiziale di critica sempre e comunque al presidente e in cui si grida al lupo, proprio mentre il Wall Street Journal definisce il gruppo dirigente repubblicano come sempre pronto ad esplodere, «the blow-a-gasket caucus». Anche la stampa più conservatrice incoraggia i repubblicani a recuperare una leadership che il partito ha perduto. «Dovrebbero smettere di litigare riguardo a quello che il presidente può o non può fare per risolvere i problemi dell’immigrazione e cercare di risolverli loro in prima persona».
Stretto tra i problemi legati all’immigrazione e i nuovi episodi di razzismo che scuotono il paese, Obama si batte ancora con forza per non lasciare insoluta dunque una delle questioni che più gli stanno a cuore. Ma, il vero grande problema irrisolto che sta dietro a tutte queste battaglie è ancora, non mi stancherò mai di ripeterlo, quello di un razzismo strisciante e pericoloso. Lo stesso che fa proclamare impunemente al Ku Klux Klan di volersi presentare a Ferguson (cittadina del Missouri a maggioranza nera) nei prossimi giorni per difendere Darren Wilson il giovane poliziotto bianco che in agosto ha ucciso Michael Brown un giovane teenager nero disarmato. Quello stesso razzismo che rende il presidente, in quanto nero, non credibile qualunque cosa faccia e che viene accusato da uno dei più importanti rappresentanti istituzionali dello Stato (cosa mai accaduta in precedenza nei confronti della più alta carica del paese) di avere «una tendenza all’illegalità». E quello stesso razzismo, infine, che fa resistere nei confronti di una sanatoria per gli immigrati illegali che cercano di sopravvivere in una realtà sociale nella quale vivono e lavorano da anni, ma nei confronti della quale, nonostante abbiano figli nati qui, risultano ancora invisibili.