«Open museum, open city» a Roma
Suoni da museo
Dallo scroscio dell'acqua a Fontana di Trevi all'armonia del Cosmo: Hou Hanru ha invaso il Maxxi con una mostra che espone l'immaterialità dell'arte. Una scommessa difficile da vincere...
Immergersi per sei settimane, fino al 30 novembre, nelle suggestioni pure del suono e arricchirne con la propria sensibilità e la propria fantasia le tracce emotive. È la nuova anomala sfida lanciata dal Maxxi con la manifestazione intitolata Open museum, open city. Un azzardo fuori copione ideato dal direttore Hou Hanru che si prefigge quattro traguardi. Esplorare uno dei territori di confine delle arti visive, sempre più frequentati dagli autori di oggi. Mettere in circolo un po’ di sana utopia nell’universo così disimpegnato e narciso del contemporaneo. Tentare di catturare un nuovo pubblico giovane, offrendo ogni week end ingresso gratuito ai ragazzi sotto i 26 anni. E infine sfruttare il fascino dell’architettura futuribile griffata Zaha Hadid, che è il principale richiamo del museo di via Guido Reni, ma anche il suo tallone d’Achille con quegli spazi sghembi, diseguali, solcati da rampe, voragini, serpentine di luci che mal si prestano all’abituale offerta delle opere d’arte e moltiplicano a dismisura costi di gestione e di allestimento. Come? Svuotando e liberando completamente le sale: via tutte le opere della collezione permanente, persino la grande stanza da sempre occupata da una grande istallazione di Penone, via tramezzi, pannellature ed arredi, il museo trasformato in spazio neutro affidato al rodaggio dei nuovi provvisori inquilini della rassegna e alle invenzioni con cui hanno provato e proveranno ad abitarlo.
L’esperimento è però anche a suo modo un’implicita , forse salutare, confessione di debolezza e impotenza in questi tempi di crisi. Troppo pochi i soldi a disposizione del Maxxi per dare risalto all’arte di oggi che per imporsi all’attenzione deve, come succede a Venezia e in altre ribalte internazionali, moltiplicare la scala e la grandezza delle opere, puntare sull’accumulazione, sul contrappunto conflittuale dei richiami. Operazioni comunque costose. Per varare questa rassegna il Maxxi ha dovuto investire 250 mila euro di tasca propria, e ottenerne altri 150 mila dall’Enel. Troppo debole l’impatto e la risonanza degli artisti contemporanei di casa, molti dei quali promossi in serie A anzitempo e senza controprove possono reggere botta solo in passerella collettive: non a caso le mostre più riuscite del museo di via Guido Reni hanno messo in vetrina maestri consacrati nella seconda metà del Novecento, come Luigi Ghirri e Pistoletto. Troppo scarsa , autoreferenziale, la platea romana di fans e intenditori dell’arte di oggi. Alle prime sempre le stesse facce.
Da qui anche il bisogno, citato nel titolo della rassegna, di aprirsi di più alla città, intercettarne le voci, ma poi smentito dal costo del biglietto adottato per le sei settimane della kermesse: 11 euro il primo ingresso, cui però si aggiungeranno altri 4 o 5 euro per il ritorno ad altri appuntamenti in cartellone. Una piazza dove è così caro sedersi scoraggia in partenza la folla dei curiosi e dei modaioli, tra i quali cercare e arruolare nuovi adepti. Giusto comunque, nonostante queste controindicazioni provarci: il suono come surrogato, alternativa alle arti visive è pur sempre un’idea.
Il programma di Open museum, open city, punta su una decina di istallazioni fisse e su un’altra cinquantina di eventi: performance, concerti, dialoghi in presa diretta con gli autori, seminari di cinema e fotografia. Un cartellone fuori copione. Più che una mostra, la presidente del Maxxi Giovanna Melandri preferisce battezzarla come un festival: «Un esperimento per smuovere in questi tempi di disorientamento e di crisi le acque, sparigliando abitudini ed attese come un museo d’arte contemporanea dovrebbe sempre fare se vuole imporsi come specchio e misura del tempo che stiamo vivendo».
Mostra? Festival? Poco importa perché i suoni che questa rassegna offre e miscela non sono solo da ascoltare, a loro modo abitano l’invisibile della creatività e partoriscono comunque visioni. Sentimenti sfuggenti e intraducibili: non a caso il direttore artistico Hou Hanru che l’ha ideata ha sentito il bisogno di darle più corpo, affidando alle istallazioni sonore il titolo evocativo di otto modi diversi di confrontarsi col mondo e con l’attualità. L’universo, le voci della città, il ruolo dell’artista sempre più simile a un guerriero solitario, le istanze personali e collettive di ribellione e di cambiamento, e così via.
Ogni capitolo una sorta di scommessa che impone al visitatore un forte livello di complicità. Ci vuole disponibilità e attenzione per non lasciar scivolar via come un campionario di rumori qualunque, il rimbalzo di suoni liquidi che ti accolgono all’ingresso: l’autore, l’americano Bill Fontana (nella foto), ci trascina dentro il ventre sommerso di Roma e ce ne restituisce come voci misteriose i gorgogli, registrando lo scorrere dell’acqua nelle tubature di Fontana di Trevi, l’accavallarsi stridente dei passaggi dei treni del metro. Ci vuole molta concentrazione per non attraversare di corsa la sala vuota del piano terra e fermarsi invece ad ascoltare l’eco di quel «la» che il giapponese Ryoji Ikeda manda in circolo come una preghiera buddista ad evocare l’armonia del Cosmo, l’accordo di tonalità e strumenti che precede ogni concerto. Ci vogliono un orecchio e uno sguardo bendisposti per partecipare al gioco di suggestioni impalpabili proposto al secondo piano dallo svizzero Philippe Rahm: una pièce di Debussy spezzettata in una pioggia di note isolate e di aloni colorati sul pavimento che si ricompone in unità solo a fine percorso. Per cogliere il rimando al lavoro delle fabbriche negli echi sordi di martellate che la Favaretto manda in onda in tre diverse postazioni ad evocare lo sforzo ingrato e malpagato del lavoro in fabbrica. Un invito a partecipare, a farsi coinvolgere, accettare le riempire il vuoto stesso del museo, che, era facile prevederlo, funziona ad intermittenza.
Immedesimarsi e farsi complici è del resto compito che anche le arti visive di oggi scaricano sul proprio pubblico. Che l’universo del suono adotti identica ricetta non è del tutto consolante. Chi ha detto che se il mondo di fuori è frastuono l’algido linguaggio dell’idea, di un capovolgimento, di una ribellione che parla più alla testa che alla pancia ed al cuore sia l’unico modo, il migliore, per rappresentare la realtà? E non un modo per rassegnarcisi.