Lettera dall'America
La strategia della foto
Pubblicare o no le immagini dell'orrore dell'Isis? Il dibattito è molto acceso negli Usa: il diritto di cronaca deve prevalere sull'oggettiva partecipazione alla "strategia" comunicativa dei terroristi?
Vi sarete chiesti come mai su queste pagine non sono mai comparse le foto di rappresentanti dell’ISIS accanto agli ostaggi che poi avrebbero decapitato, come invece hanno fatto tutti i giornali. Senza contare quei social network che si sono spinti anche a mostrare il video per intero. Ebbene, non è stato un fatto casuale. E sebbene capiamo il punto di vista di chi invece le mostra, la scelta per cui abbiamo optato, si muove nella direzione di non voler avere nessuna complicità con i terroristi e con la ferocia degli atti che hanno commesso e continuano a commettere. E lo abbiamo fatto anche a rischio di farci accusare di esercitare delle restrizioni sul flusso libero dell’informazione.
Facendo queste riflessioni tornano in mente le parole di Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, scritte nel lontano 2003, ad un anno dalla sua morte, nelle quali rifletteva sul potere e sulla funzione delle immagini fotografiche di guerra e di violenza, in maniera molto più ambivalente e complessa di quanto aveva fatto nel suo capolavoro più famoso Sulla fotografia del 1977. Soprattutto se paragonate a quelle televisive. Pervasive, queste ultime, a tal punto da intormentire la nostra coscienza. E quindi Sontag, contraddicendo la sua prima tesi, propende per le immagini fotografiche, secondo cui «se ci sono delle foto una guerra diventa reale». Affermando che se una buona foto fa nascere in noi alcuni interrogativi, e si riferisce soprattutto alle foto che ritraggono il momento della morte o quello appena precedente, è anche vero che proprio queste stimolano una sorta di voyeurismo. La fame di immagini di sofferenza che accompagna la sua iconografia è paragonabile al desiderio di vedere dei corpi nudi. Qualcosa di morboso che si può accoppiare alla solidarietà, ma anche all’impotenza e ad una dichiarazione di innocenza. E paradossalmente, mi viene da aggiungere, anche di distanza dal soggetto ritratto. Se, come pensa Sontag, il fermo immagine della foto si imprime nella nostra memoria come nessuna parola ed è un antidoto all’intormentimento delle coscienze, è anche vero che non mostrare queste foto è una dichiarazione di intenti, basata su un codice etico. Contro la violenza e contro la barbarie, e qui di nuovo mi scuso con i barbari. Contro i metodi e i messaggi dell’ISIS (a dispetto degli obiettivi retrogradi e feroci di un passato predemocratico) ormai complice di una tecnologia delle immagini che solo a parole dice di volere rifiutare e che invece usa in modo scaltro e molto mirato.
Questa scelta appare tuttavia, nel panorama mediatico italiano abbastanza isolata tanto che il problema non si è neanche posto. I mass media nostrani sono troppo occupati a badare alle galline del pollaio nazionale piuttosto che a discutere sull’esistenza di un codice etico che tanto bene farebbe alla nostra stampa così rinchiusa nel degrado del suo provincialismo e ancora lontano da posizioni di respiro internazionale. Che invece le dovrebbero viceversa stare molto a cuore. Questa discussione ha invece suscitato tra i giornali e le Tv del mondo anglosassone un dibattito rovente. Ha provocato divisioni tra i fautori di chi è favorevole ad un’informazione, se così si può dire, senza censure e tra chi invece è contrario. E il motivo non è secondario.
Ha affermato Christopher Harper del Washington Times che «il videotape e di conseguenza le fotografie delle decapitazioni dei giornalisti americani, James Foley e Steven Sotloff provocano importanti questioni etiche a proposito di come i vari tipi di media dal New York Times a Twitter si misurano con la violenza». Ci sono infatti molte questioni etiche su come giornalisticamente utilizzare questi video. Solo se si ha un codice etico da seguire, sembrano suggerire molti giornalisti, una decisione può essere presa. Tirando in ballo la Society of Professional Journalists (SPJ) e la Radio Television Digital News Association (RTDNA) Kristen Kueser sul blog Media Ethics and Society riprende quindi alcuni principi di ambedue come ad esempio quello di “ridurre il danno” che certe immagini possono creare. Ricordando che i principi contenuti nei codici etici professionali sono rilevanti nel raccontare i video dell’ISIS. Infatti i giornalisti dovrebbero «cercare di bilanciare il diritto del pubblico ad essere informato con la possibilità di generare danno e fastidio all’opinione pubblica. Perseguire una notizia non dà la licenza di arroganza o di un’intrusività non necessaria» suggerisce la blogger. Pertanto bisogna commisurare la necessità di essere informati di quello che fa l’ISIS con la necessità di condividere il footage del video che contiene il potenziale di provocare un danno maggiore(ad esempio quello di servire di strumento per arruolare altri adepti o viceversa quello di stimolare un odio indiscriminato contro il mondo islamico e arabo in generale) o di causare ai parenti delle vittime profondo dolore o disagio. Oltre al patetico tentativo di terrorizzare il cosiddetto mondo occidentale.
La posizione che in un certo senso censura le immagini disgustose del video delle decapitazioni e anche delle foto che ritraggono gli ostaggi accanto al loro boia trova molti assensi. Ruth Marcus sul Washington Post inizia il suo articolo riprendendo le parole di un cugino di James Foley, uno dei giornalisti decapitati dai militanti dell’ISIS: «Non guardate quel video. Non lo condividete. Questo non è come la vita dovrebbe essere». E continua dicendo che riesce a vedere l’altro lato della questione cioè quello di chi invece vuole che i video vengano trasmessi. Infatti se questo può facilitare il messaggio dei terroristi, è anche vero che questo modo di trasmettere e sottolineare la loro ferocia non ha uguali. Perché queste immagini comunicano più delle parole il senso di disgusto. Come scrive Jeff Jacoby sul Boston Globe «Non vinceremo mai con un nemico talmente barbaro e totalitario come lo Stato Islamico se distogliamo lo sguardo da cosa fa a coloro che sconfigge». Tuttavia di fronte all’immagine di James Foley inginocchiato con accanto il suo torturatore che, tutto vestito di nero e mascherato, suggerisce immagini di mistero solleticando nel profondo dell’immaginario collettivo di ognuno di noi anche qualche miraggio di fascino dell’esotico, ci ricorderebbe Edward Said, rimango perplessa. E non suggerisco di voltarsi dall’altra parte facendo finta che tutto ciò non accada o che non mi ferisca. Penso però che, contrariamente a quello che suggerisce Sontag o a quello che ormai da anni vado ripetendo sul potere dell’analisi contraddittoria e contrastante delle immagini che è poi l’anima dei Visual Studies, questa volta sarebbe bene dichiarare di non volere mostrare quelle immagini. Né in fotografia, né tantomeno in video. Magari chissà mostrando foto provocatorie proprio come hanno fatto quei giovani iraniani in un filmato cha ha ridicolizzato i terroristi dell’ISIS e il loro modo di agire e comportarsi.