“Le persone, soltanto le persone” di Raimo
Prove di autofiction
Un po' romanzo, un po' confessione personale, un po' reportage. Sono le componenti principali della forma narrativa - decisamente antiromanzesca - adottata dall'autore nella nuova raccolta di racconti
Allora, cercherò di spiegare – soprattutto a me stesso – perché la raccolta di racconti Le persone, soltanto le persone (Minimum Fax, 210 pagine, 14 euro), ultimo libro di Christian Raimo, mi abbia del tutto convinto, nonostante abbracci una forma narrativa, quella che in grandi linee possiamo chiamare dell’autofiction, che talvolta mi annoia o mi delude. Ma che cosa è esattamente l’autofiction? Lo ha spiegato fra gli altri Emanuele Trevi – con la sua solita chiarezza di stile e di pensiero – in un pezzo uscito sul Corriere della sera al quale intendo rifarmi: si tratta di una narrazione capace di mescolare il romanzo, la confessione personale, il saggio. Trevi ne individua una primogenitura soprattutto nel Paul Auster del Diario d’inverno e nel Barthes degli ultimi libri, scritti al tramonto degli anni Settanta. Uno per tutti: quel Frammenti di un discorso amoroso che è diventato un classico, un libro-feticcio. Ciò che la differenzia dal classico romanzo di ispirazione autobiografica, è che l’autofiction è radicalmente “antiromanzesca”. Per esempio Diario d’inverno di Paul Auster, scrive Trevi, «è un libro così sbagliato, così noioso e così gratuito che la sua lettura finisce per risultare almeno istruttiva. Ottenendo un effetto di sconcertante monotonia, l’autore si rivolge a se stesso dalla prima all’ultima pagina, dandoci l’impressione di uno che parli alla propria immagine riflessa in uno specchio».
Tanti altri scrittori hanno poi adoperato questa forma di racconto e Trevi snocciola alla rinfusa qualche nome, americano o europeo: Franzen, Carrére, Rick Mody e perfino il grande Philip Roth in Patrimonio. In Italia colui che meglio di tutti ha praticato l’autofiction è senz’altro Siti. «Credo che nessuno, in Italia, sia stato finora capace di eseguire il trucco con l’ironia, la sapienza linguistica, l’intelligenza e la necessaria dose di cinismo profuse da Walter Siti in libri come Troppi paradisi e Il contagio». Ma certo non è l’unico. Altri vi si sono cimentati, ciascuno con la propria sensibilità e il proprio punto di vista: da Cordelli ad Albinati, da Affinati a Lagioia ecc.
Tutto questo per dire che Christian Raimo fa dell’autofiction in questi racconti, nei quali però la componente saggistica propriamente detta è sostituita dalla forma del reportage narrativo che egli utilizza massicciamente riuscendo a tenere desta l’attenzione del lettore. Come? La risposta che mi sono data è che, pur rifuggendo anche lui come la peste dal “romanzesco”, pur attingendo (presumibilmente) dalla propria personale esperienza a piene mani usando spesso anche il proprio nome, pur adoperando la tecnica dell’autoconfessione, tuttavia effettua una rigorosa “selezione” dei fatti e dei personaggi che rappresenta, si avvale di una lingua brillante e ironica soprattutto sul versante più colloquiale e di una eccellente qualità di ritrattista.
Non penso tanto al primo di questi testi, Il mio gioco è soave, non molto più che un buon reportage d’autore su Il Cairo corredato da un’immagine in bianco e nero di una parte della capitale egiziana vista dall’alto (resta sullo sfondo, malgrado le intenzioni, la questione sentimentale dell’abbandono della compagna Paola). Penso invece ad altri racconti in cui Raimo rischia di più, mettendosi in scena in modo impudico e autoironico. Il personaggio che viene fuori è un quasi-giovane fragile e accidioso, sempre sull’orlo della sconfitta e del fallimento, che non riesce ad affrancarsi economicamente dalla tutela degli anziani genitori, e si barcamena fra vari lavoretti, episodiche prestazioni nel volontariato sociale, rapporti sentimentali segnati da piccole ipocrisie e tradimenti. I personaggi con cui viene a contatto gli somigliano e sono sempre sbalzati con ironia e sensibilità sociologica: perlopiù afflitti dall’incapacità di diventare adulti, di assumersi delle responsabilità, di prendersi sul serio, di abbandonare le chimere di una gioventù tutto sommato comoda e protetta, per entrare in una vita adulta che si presenta incerta, dura, precaria, tragica, anche moralmente. Personaggi pure borderline o comunque emotivamente problematici: amici eroinomani (nel bellissimo, visionario Niente più culto dei morti nell’Italia del Novecento che si conclude con una pera condivisa dai due amici ritrovati in macchina in una sperduta borgata romana fra sterpi e un immaginifico maiale legato al filo spinato), fratelli depressi e infelici e improvvisamente abbandonati senza spiegazioni dalla donna che amano e a cui si sono votati (nell’ultimo Il cielo stellato lontano da noi, anche questo assai bello e intenso soprattutto quando Alice, la compagna fuggitiva, sparisce misteriosamente durante una escursione sul Monte Gennaro).
Un discorso a parte farei per Il gioco sbagliato e Il tesoro nascosto nel campo: due lunghe narrazioni nelle quali il protagonista narrante è l’autore stesso che si racconta senza nessun filtro come editor della Minimum Fax e come occasionale volontario assistente di un ragazzo gravemente menomato. Nel primo c’è un romanzo giunto in redazione della casa editrice che attira immediatamente la sua attenzione per la qualità letteraria e, soprattutto, perché uno dei personaggi raccontati è Christian Raimo stesso che partecipa a una specie di ammucchiata che sconfina (forse) in stupro di gruppo, episodio avvenuto molti anni prima durante il liceo. Raimo cerca di mettersi in contatto con la scrittrice per ottenere un chiarimento, ma la cosa all’inizio appare difficile per il filtro esercitato dall’agenzia letteraria. Alla fine l’editor e la giovane scrittrice finalmente si conoscono e si chiariscono e prevedibilmente finiscono a letto. Io da “romanziere tradizionale”, mi si consenta questa annotazione affatto personale, portato a estremizzare l’evento per renderlo simbolico, l’avrei raccontata in un altro modo questa storia. Non avrei smussato la responsabilità del personaggio (mezzo ubriaco e tutto sommato estraneo all’atto criminoso materialmente compiuto da altri ragazzi anche loro ubriachi), ma anzi l’avrei resa evidente ed esplicita. Ma in questa scelta si gioca proprio la scommessa di una forma di racconto o di un’altra. Resta che il racconto di Christian Raimo inquieta moralmente e induce riflessioni tutt’altro che banali sul rapporto realtà-finzione, sfruttando al meglio le potenzialità di questo modello narrativo.
Il tesoro nascosto nel campo mette insieme, a contrasto, due flussi narrativi diversi, il più forte dei quali mi sembra il rapporto che si instaura fra Raimo stesso e Stefano, un ragazzo gravemente menomato a causa dei danni cerebrali seguiti a una chemioterapia. Così gli appare al suo primo incontro: «seduto di traverso su una sedia a rotelle, con le gambe semiripiegate su un lato (…) Completamente glabro; gli sbocciano solo dei miseri ciuffetti di capelli su una testa lucida senza pori che assomigliano a licheni sopra la superficie di una parete di ghiaccio (…) Alle volte, se lo si chiama, “Stefano!”, reagisce allo stimolo, allarga gli occhi, emette un sibilo; altre volte sembra narcotizzato». Christian comincia a frequentare assiduamente la sua casa e impara dai parenti e da chi lo assiste a comunicare con lui, nel suo linguaggio di bisogni primari. «Comunicare vuol dire accarezzargli la testa, massaggiargli i muscoli del collo che si irrigidiscono per la tensione (…) toccargli le mani….». Quando le crisi sono più forti l’unico rimedio è l’intervento di un’“accarezzatrice sociale”, che, gli spiegano, è una donna che si presta a masturbare il malato, incapace di farlo da solo, per farlo stare bene e quietarlo. E qui è irresistibile – inevitabilmente cinico – il dialogo in romanesco fra Marcello, uno di famiglia, e Raimo stesso. Finché il narratore, portandolo in giro per il quartiere con la carrozzina, si avventura in un prato e a causa di una mossa sbagliata e del terreno accidentato e scosceso perde l’equilibrio e la carrozzina si ribalta e Stefano, buttato scompostamente a terra, viene preso da una delle sue crisi epilettiche che lo squassano tutto. Raimo allora, assai allarmato dalla situazione e dalle possibili conseguenze, alla fine non trova di meglio che mettere in pratica, con la morte nel cuore, quell’insegnamento. La scena onanistica è raccontata in modo secco, asciutto, perfino brutale, e suggerisce un sentimento di pietas autentica e profonda.
Quanto al Calvino contro Pasolini, si tratta di un racconto che adopera la tecnica bizzarra di rappresentare personaggi di invenzione chiamandoli però con nomi di figure celebri, ormai diventate “icone di massa”, come Pasolini e Calvino. Il giochino, di conio postmoderno (impiegato in Italia anche da Pincio nel suo libro d’esordio Lo spazio sfinito), è a tratti fonte di comicità, e anche inventivo, spaesante, ma personalmente mi interessa meno.