La “protesta degli ombrelli”
Occupy Hong Kong
Evocare Tiananmen o, peggio, le primavere arabe non serve a niente: la gente di Hong Kong non vuole abbattere un tiranno: protesta perché la Cina mantenga i propri impegni. E per continuare a esistere
Scomodare i martiri di piazza Tiananmen, evocare una repressione cieca da parte dell’Esercito di liberazione popolare, paragonare i fatti di Hong Kong a quelli della storia democratica della Cina continentale sono tutte stupidaggini. L’attacco di questo pezzo può essere forse un poco brusco, ma nella complicatissima matassa che si sta dipanando nell’ex colonia britannica è necessario fare un poco di chiarezza. Altrimenti si rischia di vedere nelle proteste di piazza del Territorio una replica delle fallimentari (e fallite) Primavere arabe, sbagliando completamente il punto di osservazione.
A Hong Kong sta succedendo una cosa abbastanza semplice: la popolazione vuole che la Cina continentale mantenga le proprie promesse di democrazia, ma soprattutto vuole affermare il proprio diritto a esistere a fronte di un colosso che fra meno di 35 anni la ingloberà per sempre. Nessuno chiede la fine della tirannia, nessuno sogna di capovolgere l’ordine costituito, nessuno vuole “libertà”. Il popolo di Hong Kong pretende quello che gli è stato assicurato e sta cercando la propria identità a fronte di un futuro abbastanza fosco.
Procediamo con ordine. Per tutto il periodo coloniale, Hong Kong non ha mai goduto di democrazia. I britannici non hanno concesso alla popolazione di esprimersi sul governo locale, affidando al Governatore il compito di formare un proprio mini-esecutivo con cui gestire il territorio. L’isola è tornata sotto il governo della Cina continentale nel 1997 a seguito di un accordo (firmato nel 1984) fra Pechino e Londra. In quell’occasione, la Cina diede il suo assenso a governare il territorio sotto il principio “una nazione, due sistemi”, secondo il quale la città avrebbe goduto per altri 50 anni (a partire dal ’97) di “un alto livello di autonomia, fatta eccezione per le questioni estere e di difesa”. All’atto pratico, Pechino accordava a Hong Kong un proprio sistema legale e la protezione di diritti di base come la libertà religiosa, di assemblea e di parola.
Fino a oggi il capo dell’ex colonia, che guida l’esecutivo, è stato eletto da una Commissione elettorale composta da 1.200 membri: tutti membri delle élite industriali e politiche del Territorio, e quindi molto vicini alle posizioni di Pechino, divisi in quattro macro-settori: business, professionisti, politici, società civile. Per eleggere i membri della Commissione esistono due tipi di voto: quello popolare e quello delle corporazioni.
Questo modus operandi era stato deciso per “dare il tempo alla popolazione” di abituarsi alle nuove libertà e votare solo nel 2017 in maniera pienamente democratica. Ma la Basic Law, la piccola Costituzione eredità dei britannici e approvata dalla Cina continentale, recita chiaramente che “lo scopo finale” è quello di eleggere il Capo dell’Esecutivo “tramite suffragio universale”.
Lo stesso governo cinese ha promesso in più occasioni libere elezioni per l’appuntamento del 2017. Ma nell’agosto del 2014 la massima autorità legislativa cinese – il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del Popolo – ha deciso che i votanti di Hong Kong avranno la possibilità di scegliere solo da una lista di due o tre candidati prescelti da una Commissione incaricata di nominare “le persone adatte al ruolo”.
La formazione di questa Commissione è da stabilirsi, ma di certo essa “deve essere in accordo” con quella elettorale già esistente e di fatto nelle mani di Pechino. Ogni candidato intenzionato a correre per il ruolo di Capo dell’Esecutivo dovrà ottenere almeno il 50% dei voti della Commissione per essere inserito in lista. Secondo gli attivisti democratici, la Cina userà la Commissione per scremare i candidati non graditi.
Secondo il testo approvato dall’Assemblea nazionale del popolo “il Capo dell’Esecutivo di Hong Kong deve essere una persona che ama la nazione e Hong Kong. Questo è un requisito base per la politica ‘una nazione, due sistemi’, è previsto dalla Basic Law ed è necessario per mantenere la prosperità e la stabilità a lungo termine di Hong Kong. Inoltre, è necessario per rafforzare la sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo della Cina intera”. In pratica, chi ha una posizione critica nei confronti di Pechino “non può ricoprire questo ruolo”. Riassumendo, una farsa.
Sfatiamo alcuni miti. Innanzitutto, il movimento democratico “Occupy Central with Love and Peace” non è nato per rispondere alle proposte di Pechino. Esso era stato creato circa due anni fa – nel gennaio del 2013 – per preparare la popolazione dell’ex colonia a “resistere” in caso di “furti” da parte di Pechino nel campo della democrazia. I suoi fondatori hanno spiegato sin da subito che il modello era quello della disobbedienza civile pacifica, e hanno fatto di tutto per evitare derive violente. Nei 21 mesi della sua attività, Occupy non ha mai mostrato cenni di aggressività. Tuttavia il suo scopo primario – paralizzare il distretto finanziario di Hong Kong, Central – non ha convinto il grosso della popolazione.
In secondo luogo, nessuno si sta “battendo per la libertà”. Da bravi cinesi, anche gli abitanti dell’ex colona britannica sono prima di tutto pragmatici: occupare Central e bloccare le attività commerciali e finanziarie di Hong Kong significa perdere denaro e posti di lavoro. Per questo, nonostante una generica simpatia, il grosso degli abitanti non ha aderito al movimento. Che, da parte sua, dopo la delusione di settembre ha spinto per manifestare “soltanto nei giorni di festa” in modo da non creare danni troppo gravi. Il Territorio sa benissimo di non avere futuro senza l’appoggio della Cina. Vuole soltanto che la propria voce venga ascoltata.
Dunque cos’è successo? È successo che la Federazione degli studenti – non affiliata a Occupy – ha indetto per l’inizio dell’anno scolastico uno sciopero delle lezioni di una settimana. Tra l’altro frequentando i corsi la mattina e manifestando solo il pomeriggio. Finita la settimana, il 27 settembre, hanno chiesto un incontro a Leung Chun-ying (l’attuale vertice politico del Territorio) per presentare la propria proposta di democrazia. E la polizia ha risposto con i gas lacrimogeni, le cariche e gli arresti sommari.
Questa violenza senza senso – probabilmente suggerita da Pechino ma da ascrivere interamente al Capo dell’Esecutivo – si è rivelata un boomerang. Sconvolti dalle immagini di poliziotti armati inviati contro studenti inermi, i cittadini di Hong Kong hanno detto basta e si sono uniti alle proteste di piazza. Inoltre con ogni probabilità lo stesso Leung – che alcuni cinesi definiscono con ironia “più papista del Papa” – ha voluto presentare al padrone cinese una visione distorta della situazione: ora è lui il vero bersaglio dell’odio popolare.
Come andrà a finire è difficile da dire. Di certo alle 16 italiane di oggi scade un ultimatum importante: le dimissioni del Capo dell’Esecutivo oppure l’occupazione dei palazzi del potere di Hong Kong. Pechino potrebbe concedere la testa di Leung e far eleggere un nuovo vertice, più dialogico, che conceda qualcosa alla popolazione. Ma non c’è da illudersi: Hong Kong la sua democrazia non l’avrà mai.