A Roma, alle Vie dei Festival
Neiwiller & Naufragi
Salvatore Cantalupo ha rimesso in scena, trent'anni dopo, «Titanic the end» il più visionario e attuale spettacolo di Antonio Neiwiller, un grande artista da rivalutare
A teatro la memoria conta più della storia: il teatro si ricorda, non si storicizza. Credetemi. E il ricordo dipende da tante cose che con il teatro in senso stretto hanno poco a che fare: se abbiamo già cenato o no; se abbiamo avuto una pessima giornata; se ci aspetta un dopoteatro sontuoso; se abbiamo una cattiva digestione; se abbiamo accanto un compagno/a di platea sensibile o no… La storia del teatro dipende da tutto ciò e con questo effimero si confrontano gli artisti della scena per cercare di essere più forti di un cattivo ricordo, di un digiuno o di una pessima cena, di un’avventura di sesso da consumare o di un’automobile parcheggiata in doppia fila. Degli artisti di teatro, quelli veri, invidio soprattutto la leggerezza con la quale affrontano questa sfida, ricamando emozioni senza farsi troppo condizionare dall’aleatorietà del ricordo di chi guarda. Anzi, con la convinzione che chi guarda ricorderà le cose giuste; sicuramente!
La digressione/distrazione era obbligatoria – per me – assistendo a Titanic the end questa sera a Roma al Teatro Vascello nell’ambito delle Vie dei Festival. Obbligatoria perché a questo spettacolo di Antonio Neiwiller avevo già assistito con gioia trent’anni fa, sempre a Roma, in un disgraziato posto che all’epoca si chiamava Convento Occupato ed era un luogo freddo e scomodo tra via degli Annibaldi e i Fori Imperiali. Nel senso che lungo il corso dei settanta minuti occupati da questo ricordo (nel caso, anche dal ricordo personale di Salvatore Cantalupo che nel 1984 recitava nell’originale e oggi lo ripropone in modo magistrale per rendere omaggio a Neiwiller, vent’anni dopo la morte), ho pensato più volte se ciò che stavo vedendo corrispondeva a ciò che ricordavo.
Dirò subito che stavolta ho trovato più Beckett che Kantor, rispetto a trent’anni fa. Segno che l’irlandese resiste alla storia più del polacco. Poi lo spiegherò meglio, ma per ora occorre premettere che Titanic the end non ha una storia che si possa raccontare: salvo sottolineare che il naufragio è una recita da clown. Il tema, insomma, è il naufragio: ma non c’è propriamente tragedia in questa rappresentazione, né l’epica dei viaggiatori di terza classe travolti dal Fato, né la balbuzie politica dell’aristocrazia che balla sul ponte della nave che sta affondando. Il naufragio è una condizione storica, secondo Neiwiller, alla quale nessuno in questa parte di mondo ricco può sottrarsi: abbiamo tirato troppo la corda del progresso, dello sfruttamento e del capitalismo. Semmai, stavolta, rispetto all’originale, c’è un occhieggiare maggiore alla clandestinità, agli sbarchi e alle tragedie degli ultimi che ci vengono a morire sugli arenili. Ma nel 1984 tutta questa tragedia che oggi quasi ci scorre addosso non c’era. Può sembrare assurdo, ma c’è stato un tempo nel quale gli extracomunitari, i clandestini, gli immigrati non c’erano. E il naufragio era quello del nostro Occidente opulento che mangiava se stesso ogni sera tra un bicchiere di spumante e una mela.
Mi ha colpito rendermi conto, questa sera, che Antonio Neiwiller aveva visto in anticipo la crisi, il naufragio che sarebbe stato di tutto l’Occidente: la recita collettiva delle ricchezze e delle apparenze sarebbe degenerata in un colossale fallimento, questo capì Neiwiller prima degli altri. Credo che noi non ce ne sia accorti, all’epoca, neanche vedendo Titanic the end.
Più Beckett che Kantor: allora, 1984, l’impatto emotivo de La classe morta era freschissimo, ma oggi quella sirena che risuona bloccando i gesti di questa truppa di naufraghi ignari ricorda assai di più Atto senza parole di Beckett. Così come le mele che il nostromo ruba dai naufraghi e si mette in tasca ricorda le banane di Krapp. Nel senso che qualcuno, forse il destino?, ci giuda non si sa dove né da dove. Questo è un prezzo (da Kantor a Beckett) che i tempi di oggi pagano alla morte delle ideologie; nel senso che Kantor attribuiva una responsabilità alla storia, nel raccontare la nullificazione della società; mentre Beckett ci ripete ossessivamente che è un caso. E in questo io credo che Beckett sia più moderno e attuale di Kantor. Resta però il fatto che con la sua memorabile invenzione Antonio Neiwiller si poneva in tale magnifica scia; dicendo la sua e dandoci la sensazione (come scrivevo trent’anni fa) che quel che capita sulla scena è già successo chissà quando e chissà dove, anche a noi ignari spettatori.
Aver riportato in vita questa utopia poetica (si può parlare di poesia a proposito del teatro? Se sì, Neiwiller merita in pieno l’uso di questo aggettivo) averla riproposta al pubblico è un merito che va attribuito in pieno sia a Salvatore Cantalupo sia a Teatri Uniti (che l’ha prodotto) sia a Natalia Di Iorio che ce l’ha fatta vedere a Roma. Sia a tutti i giovani attori che con questo vecchio/nuovissimo sogno si sono misurati: Carmine Ferrara, Massimo Finelli, Amelia Longobardi, Ambra Marcozzi, Claudia Sacco, Sonia Totaro e Chiara Vitiello; tutti bravissimi, per altro. A mio vantaggio, posso dire che me lo ricordavo quasi uguale, questo spettacolo: ma il merito è di Neiwiller che impone le sue emozioni al di sopra delle nostre pance piene, del nostro vino cattivo, delle nostre chiacchiere e di tutto il resto. Ma, insomma, se fossi un direttore di teatro, questo rinnovato Titanic the end non me lo farei scappare.