Meridione dimenticato
Napoli senza mare
Il Centro direzionale di Napoli è un'isola nella città, un luogo preciso e magnifico, elegante e postmoderno. Ma senza un'anima. Basta vederlo al tramonto per capirlo
Al Centro Direzionale di Napoli ci si può arrivare in vari modi. Il più suggestivo è con l’auto, via tangenziale e di mattina presto. Pagato il pedaggio a corso Malta, si resta ammirati dallo skyline che compare sfumato nella nebbiolina. È come se il muro di grattacieli fosse spuntato durante la notte, e sembra di andare incontro a un miraggio, di abbandonare la città vecchia e proiettarsi nel futuro. Il modo più faticoso è con i mezzi pubblici. Con gli autobus dagli orari incerti, coi treni – non più puntuali – della gloriosa Circumvesuviana, con le fermate prossime, non vicinissime, della metro linea 1 e linea 2, che terminano la loro corsa alla stazione centrale, distante 10 minuti di cammino.
Al Centro Direzionale d’inverno fa molto freddo, tira sempre vento e se piove non è mai una pioggia normale, ma è storta, violenta, improvvisa, e fa strage di ombrelli. D’estate il caldo è torrido, soffocante, e il sole picchia inclemente; ma solo i turisti giapponesi hanno il coraggio di una paglietta o di un ombrellino, quando lo attraversano per ritornare in albergo.
Al Centro Direzionale non c’è toponomastica urbana, i lotti di edifici sono raggruppati in isole contraddistinte da una sigla alfanumerica, che va da “A” a “G”, in senso antiorario, come percorrendo una U rovesciata, e al centro scorre dritto viale della Costituzione; manca la “D”, che avrebbe dovuto essere l’isola più grande ma non è mai stata costruita.
Al Centro Direzionale, dove un tempo – come sanno gli anziani – erano solo paludi, certe mattine il vento porta l’odore del mare, ma fai fatica a immaginarlo, e se lo intravedi da un ascensore esterno in rapida ascesa verso il ventesimo o trentesimo piano di una torre, il mare pare solo una striscia di grigio che si aggiunge alla linea della ferrovia e poi del porto. E non è mare, dunque, non è paesaggio, è un elemento triste di un triste panorama.
Al Centro Direzionale, dopo le cinque del pomeriggio, i viali pedonali si svuotano e al livello stradale, due piani sotto – a meno 2 – è terra di nessuno. Restano rare auto parcheggiate (delle migliaia che alla mattina si contendono ogni centimetro di parcheggio, abusivo e no), decine di cassonetti spesso stracolmi per giorni, cartacce che danzano nel vento, e antiche affissioni mai rimosse: la sagra della mela annurca di Dugenta, la commemorazione di Almirante, l’attivo sindacale della Filt all’hotel Ramada. Tutte occasioni perse.
Al Centro Direzionale, ogni due mercoledì, c’è il mercato della Coldiretti. Attorno alle sporte e agli odori di frutta e verdura, s’affolla e si mischia la popolazione residente e quella impiegatizia, in una delle poche occasioni di incontro. Le signore locali si muovono col passo padrone di chi conosce il territorio, e non s’affannano, non sgomitano, sanno che a differenza delle concorrenti, che hanno lasciato l’ufficio con una scusa, hanno tutto il tempo dalla loro parte.
Al Centro Direzionale ci sono – oltre ad aziende piccole e grandi, uffici e studi professionali – la chiesa, la farmacia, un istituto comprensivo e l’università Parthenope; tre parrucchieri e vari istituti di bellezza, estetici e di terapie per la cura del corpo; 14 negozi di abbigliamento e 34 tra bar e tavole calde; due consolati, un fotografo e la Regione; un hotel, tre palestre e un rivenditore di matrioske e altri articoli originali russi; mancano una libreria e l’ufficio postale.
Al Centro Direzionale, durante la pausa pranzo, tutti si riversano nei viali, in fuga dall’aerazione forzata che vige nella maggior parte degli edifici. L’aria è pulita perché priva di gas di scarico e le panchine, che si misurano a metri lineari, accolgono generose la sfaccendata sospensione dal lavoro o dallo studio. Chi ha i ticket siede a un tavolino per una pizza o un pranzo a prezzo fisso; gli universitari, i corsisti e tutti i precari mangiano panini o vaschette portate da case e investono pochi spiccioli per un caffé e una partita a bigliardino.
Al Centro Direzionale c’è uno degli ingressi del Palazzo di Giustizia, con avvocati sempre attaccati al telefono a completare per strada i ricorsi, segretarie sempre stracariche di incartamenti, clienti di avvocati sempre incazzati neri, che cercano di ritrovare la scala di accesso al parcheggio dove hanno lasciato l’auto. Le indicazioni scarseggiano, come i soldi, come la speranza di vincere la causa, come – per molti – la certezza del diritto.
Al Centro Direzionale certe mattine l’aria è bella e silenziosa, la luce riflette i grattacieli nei vetri a specchio di altri grattacieli, l’odore dei cornetti s’insinua nelle cabine degli ascensori e sveglia i sensi. Le guardie carcerarie del vicino carcere di Poggioreale commentano la notte davanti a un caffè forte, gruppi di amici fanno footing, solerti spazzini ramazzano le strade. Sembra di stare in un mondo perfetto, forse quello che aveva immaginato Kenzo Tange quando firmò il progetto.
Ma al Centro Direzionale, dopo quasi vent’anni, manca ancora qualcosa. E non sono –solo – i buoni collegamenti, la manutenzione, l’integrazione col resto della città. No, al Centro Direzionale manca l’anima. I napoletani non lo conoscono, non sanno come arrivarci e una volta dentro non si orientano. Lo vedono come un corpo estraneo, un Lego calato giù da una portentosa gru. Chi lo conosce, invece, sa che è stato lasciato un po’ a se stesso, e si è disordinatamente riempito di funzioni e persone, di abitudini, odori, passi frettolosi.
Al Centro Direzionale, nella stazione della Circumvesuviana – un atrio enorme, coi pavimenti di marmo, ma coi soffitti che trasudano la pioggia – sulla parete giù ai binari, alcuni anni fa, un valente writer disegnò una bellissima tromba d’aria, in bianco e nero. E accanto vi aggiunse, frettolosa, la scritta: Ma l’anima di un uomo di ke colore è?