In mostra alla Galleria del Laocoonte
L’arte antiretorica di Pietro Gaudenzi
Il colonialismo fascista oltre la “damnatio memoriae”: esposti a Roma i cartoni preparatori di un valoroso artista misconosciuto per il ciclo di affreschi (oggi perduti) del Castello dei Cavalieri di Rodi, ricostruito nel 1936 dal Governatorato italiano nell’isola del Peloponneso
Non c’è solo un pezzo della nostra storia dell’arte del Novecento nella mostra appena inaugurata alla Galleria del Laocoonte di Roma (via Monterone 13, fino al 31 gennaio 2015, orario martedì-sabato 10-13; 15,30-19). C’è anche un pezzo di storia d’Italia, l’Italia di Bottai e di Farinacci, del colonialismo fascista e della successiva damnatio memoriae di un’epoca e di una temperie culturale. Infatti nelle due sale si espongono i cartoni preparatori di un monumentale ciclo di affreschi irrimediabilmente perduti realizzati da Pietro Gaudenzi – artista misconosciuto ma che merita di essere esposto e studiato – per il Castello dei Cavalieri di Rodi, colosso cinquecentesco ricostruito nel 1936 dal Governatorato italiano nell’isola del Peloponneso diventata una delle capitali del nostro caduco impero coloniale.
Pietro Gaudenzi era nato a Genova nel 1880 dove frequentò l’Accademia Ligustica. A Roma si trasferì nel 1904, avendo conquistato un pensionato. Nella Capitale sviluppò una pittura naturalistica dal tratto neoimpressionista che negli anni virò verso il Purismo. Un’arte plastica, popolata da figure pensose e ieratiche, da corpi composti nella loro possente e tridimensionale fisicità. Un’arte religiosamente ispirata, nella quale per esempio il grande dipinto dello Sposalizio, esposto nel 1932 alla Biennale di Venezia e diventato una sorta di manifesto dello stile purista, allude nel banchetto nuziale a un’Ultima Cena oppure, nell’incontro di due giovani commensali, alla Visitazione della Vergine. Nella mostra romana è esposta una tavola dipinta che si può definire un bozzetto rispetto al quadro alto due metri e mezzo e lungo sette che Gaudenzi presentò in Laguna, che fu acquistato dal senatore Borletti di Milano per 130 mila lire e del quale, dopo la collocazione a Milano, si è persa traccia. Ma ne troviamo una replica (tanto caro il soggetto doveva essere a Gaudenzi, legatissimo alla moglie Candida Toppi, che fu sua modella ad Anticoli Corrado, dove l’artista si stabilì) anche negli affreschi di Rodi, in una delle pareti della Sala della Famiglia: una scena che potrebbe intitolarsi Nozze di Cana senza miracolo o pranzo nuziale di Maria e Giuseppe, se avessero potuto permetterselo. E che nella luce sovrannaturale che contorna gli sposi emana quel senso del sacro nel quotidiano, elemento centrale nella poetica dell’artista genovese.
Alla Galleria Laocoonte sono esposti nove cartoni preparatori degli affreschi di Rodi, colorati a pastello, delicati nel tocco. Opere che uno dei curatori della mostra, Marco Fabio Apolloni (a lui si affianca Monica Cardarelli) comprò in un’asta torinese, salvando la memoria del ciclo di Rodi, altrimenti documentato soltanto da foto d’epoca e da un cinegiornale Luce. L’altra sala dipinta da Gaudenzi si chiamava Sala del Pane riecheggiando così la mussoliniana “Battaglia del grano”. Vi raffigurava la vita agricola di Anticoli, dove nacquero i suoi quattro figli, la mola del paese, le contadine con i fasci di spighe, una donna recante una pagnotta infiorata stretta al petto come un bambino da cullare. E ancora la Semina, la Mietitura, insomma un mondo composto e fiducioso nella sacralità fertile della Natura. Il tema era stato anche scelto da Gaudenzi per un trittico che gli sfruttò il Premio Cremona. Ma sia in quest’opera, sia negli affreschi egei la retorica magniloquente del regime lascia il passo a una lirica astrazione, a un sommesso e fideistico colloquio dei personaggi.
Peccato si sia persa la speranza di trovare gli affreschi di Rodi, anche eliminando lo strato bianco di calce che copre le pareti delle due sale al secondo piano che ospitavano il lavoro di Gaudenzi. Attualmente le pareti mostrano solo nudi blocchi di arenaria. Inoltre è stata abbattuta la parete divisoria delle sale e una pedana di legno coperta da moquette nasconde il mosaico del pavimento.
Ben altro doveva apparire il Castello di Rodi alla fine degli Anni Trenta. Gli inglesi che occuparono Rodi, l’Isola delle Rose – rodon nel greco antico significa appunto rosa – lo definirono a fascist folly. Così l’aveva voluto Cesare Maria De Vecchi, conte di Val Cosmon per meriti militari, già Ras di Torino e Governatore della Somalia, retorico autoritario, intollerante. Nel 1936 Mussolini fu ben contento di levarselo di torno assecondando la sua richiesta di diventare Governatore di Rodi, succedendo al giolittiano Mario Lago, che aveva saggiamente guidato l’isola ed era riuscito ad armonizzare la presenza degli italiani con gli autoctoni, greci, turchi, sefarditi. Lago avrebbe voluto restaurare il Castello, che era stato all’origine un tempio greco, poi fortezza bizantina, poi edificio dell’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni abbandonato agli invasori turchi nel 1522, e trasformato in carcere dopo l’esplosione accidentale di una polveriera che nel 1856 lo aveva semidistrutto. De Vecchi invece optò per la totale ricostruzione, che costò in tre anni 30 milioni di lire di allora, con scalpellini portati dalla Puglia, mosaicisti da Firenze e Venezia, artisti come appunto Gaudenzi. Ne venne fuori una costruzione scenografica (ancora oggi è il monumento più visitato di Rodi, una teofania pari a un fondale d’opera). La fine del Regime e della guerra (gli inglesi tennero Rodi fino al 1947) svuotò il Castello di tutto. Anche degli ispirati affreschi di quell’artista schivo che fu Gaudenzi, immerso in un mondo contadino dove sacralità, legami parentali e tradizione erano gli unici valori ai quali incardinarsi.