Danilo Maestosi
Una grande mostra al Vittoriano

L’inferno di Sironi

Roma rende omaggio a Mario Sironi, un artista che volle farsi monumento. Ma che forse per tutta la vita non ha fatto altro che dipingere la sua disfatta. E la disfatta dell'uomo novecentesco

Occhio agli ultimi quadri. La mostra, che fino al 4 febbraio il museo del Vittoriano dedica a Mario Sironi (1885-1961), inaugurando un nuovo ciclo sui grandi maestri del Novecento, che poi chiamerà alla ribalta Giorgio Morandi, è molto ricca di opere e di suggestioni. Si arriva probabilmente a fine percorso già saturi, uno sguardo e via. Ma quelle tele meritano di più. Meritano di più quelle due composizioni che evocano l’Apocalisse: relitti di figure frantumate e sbiadite che guizzano contro uno sfondo rosso livido, sussulti di un mondo interiore in sfacelo. E merita di più quel quadretto, appena 20×30, che le precede. Si intitola: Il mio funerale. Per cedere a una fantasia come questa bisogna essere già in fondo al baratro, nessuno scudo, nessuna maschera a proteggerti. È raro che un artista si confessi così, reclami senza alzare i toni tanta attenzione per dirci disperazione ,dolore, caduta di ogni speranza. Si congeda da noi, consegnandoci con il testamento della sua disfatta personale anche una chiave d’accesso a tutte le sue opere.

sironi il mio funeraleLa tela è come tagliata in due fasce. In alto si srotolano come fantasmi le quinte di una scenografia teatrale ammassata in magazzino: statue, colonne, la facciata di un tempio. Ho sognato e scolpito un impero di cartapesta? dubita l’autore, sgranandoci di fronte le icone della sua convinta adesione al fascismo, che nel dopoguerra non gli hanno mai davvero perdonato, gli spettri di quel suo pensare in grande, rifondare un mondo di valori eterni, che rivendica con orgoglio di costruttore, ma non riesce più a distinguere dalle macerie cui si è ridotto. In basso nella seconda fascia su una strada che va verso il nulla la sagoma di un carro funebre seguito da poche persone. Sostituiamo a quelle quinte di monumenti le facciate dei cupi palazzoni di un hinterland milanese, a quel carro a cavalli la sagoma scura di una macchina o di un autobus congelati nella loro corsa verso il buio e precipitiamo nelle atmosfere incombenti di quei panorami di periferia che hanno consacrato la fama di Sironi. Ci resta in gola la sensazione forte che anche allora, quarant’anni prima, Mario Sironi stesse già raccontando il suo funerale. Vivere e sentirsi già morto: la dannazione della depressione con cui Mario Sironi ha dovuto combattere per tutta la vita come misura di tutta la sua produzione: quella malinconia, quel senso di solitudine, che rendono inconfondibili i suoi capolavori, quella tavolozza che a poco a poco si restringe a una gamma di grigi, di neri, di ombre terrose; quel suo contrarre, scolpire lo spazio a volumi, reclamando un’oggettività, un senso di permanenza che la precarietà delle sue tempeste emotive sembrerebbero sempre smentire e che poi lo trascinerà verso l’enfasi delle allegorie monumentali degli Anni Trenta.

Ad autorizzare questa chiave di lettura contribuisce del resto anche l’allestimento della mostra che non a caso colloca a inizio percorso un autoritratto del 1909: da cucciolo l’artista ci guarda così da un volto serioso, accigliato, che grande avventura, ma che dramma, che responsabilità la pittura per chi non sa mentire a se stesso. Mario Sironi ha appena 24 anni, la sua vita oscilla tra Roma e Milano, sta ancora cercando una sua voce. Qui in questo autoritratto come in altri ritratti della madre che cuce, del fratello, della sorella al pianoforte, raccolti sulle pareti del corridoio d’ingresso rielaborando echi e pennellate del divisionismo, che è la tendenza più in voga. Oppure in altri quadri di poco precedenti, inseguendo le suggestioni del simbolismo, altra scuola dominante in quell’inizio secolo, specie in Lombardia, in un campionario di paesaggi di atmosfere rarefatte e colori gessosi.

sironi2Sironi è molto attento a quel che gli avviene intorno. Pronto a sperimentare e a buttarsi. Come farà aderendo al futurismo, con cui percorrerà un tratto di strada lungo quasi un decennio, fino al 1920: mostre, proclami, manifestazioni, l’amicizia con Boccioni, l’incontro con Balla e con Severini, viaggi d’iniziazione e scoperte a Parigi. Il movimento gli apre le braccia e gli offre un metro di misura del mondo che collima con le sue aspirazioni di costruttore di futuro e lui lo ripaga, adattandosi almeno all’inizio: ecco in mostra una testa del 1913 dove emerge tutta l’influenza di Boccioni, ecco un Arlecchino, un bevitore, una ballerina dipinti nel 1915, miscele di pittura e collage che rendono esplicito omaggio a Severini. Ma Sironi resta un futurista eretico. Gli altri inseguono la velocità, il dinamismo, le traiettorie dei sentimenti e della velocità. Lui ancora la scomposizione dei piani alla stabilità dei volumi, alla massa scultorea dei corpi: il suo ciclista del 1916 non fluttua nell’aria ma sembra scolpito nella pietra. Non lo assale l’ebrezza della città che sale e si espande, il culto mistico del movimento: alla metropoli ruba scenari da incubo di strade semivuote e palazzoni incombenti, le macchine i bus che li solcano sono sagome congelate fuori del tempo, la tavolozza si allinea alle tonalità della depressione e del pessimismo. Il distacco è già pronto, venato da umori cupi di non senso che maturano attraverso una breve stagione metafisica: gli uomini ridotti a burattini come nel Sollevatore di pesi del 1919, lo spazio ridotto a specchio dell’assurdo, come nella Lampada di quello stesso anno.

E Sironi parte per un’altra avventura decisiva: quella di Novecento, il movimento di riancoraggio alla tradizione di riformulazione di un futuro e di una società di grandi valori a misura d’uomo, che fonda insieme ad altri sei artisti di minor peso, transfughi dagli eccessi dell’avanguardia futurista, mentre l’Italia imbocca la svolta del regime fascista. Ad affiancarlo è una musa d’eccezione, la giornalista Margherita Sarfatti: è lei a presentargli Mussolini che Sironi finirà per idolatrare come modello di un supereroe deciso a riplasmare i destini dell’Italia, lei a sostenerlo, promuoverlo, tentare di difenderlo dal tarlo della depressione sempre in agguato, esaltando le sue opere, giustificando quella vena cupa di malinconia che rispunta ovunque. Vezzeggiandolo se occorre come un bambino: «Sironcino mio», lo blandisce per strappargli un sorriso in una lettera esposta sotto il ritratto che il pittore le dedica. E Sironi risponde a queste sollecitazioni sfornando nei suoi quadri fine Anni Venti figure di uomini operosi ed esemplari, che rispecchiano il suo credo sempre più convinto in una società rimodellata all’altezza di grandi ideali. Senza divisioni sociali: la figura ascetica dell’Architetto accanto a quella del Pescivendolo. Corpi muscolosi e squadrati, quasi a resistere a quello sforzo di edificazione che il pittore avverte ed esalta come immane, ma non riesce mai a sottrarre ai rigurgiti della solitudine, dell’infelicità.

sironi3Sironi è pronto al grande balzo degli Anni Trenta che trasforma lui stesso, il pittore, in costruttore di opere monumentali. Niente più quadri di cavalletto. Un decennio consacrato ad affreschi, vetrate, mosaici per decorare le nuove architetture del fascismo, allestire mostre. È il cuore spettacolare della mostra del Vittoriano, con quei cartoni, quegli enormi bozzetti che troneggiano nell’atrio: allegorie della Pace, del Lavoro, dello Studio, della Giustizia con cui Sironi da fondo a tutti i suoi sogni, cercando come può di tenere a bada l’enfasi e la retorica insieme al suo innato pessimismo, le figure sempre più legnose come forme estratte dalla pietra, architetture che sfidano il tempo. Sironi a quelle idee che si fanno forma continuerà a credere. Così come continuerà a restar fedele a Mussolini, aderendo anche al canto del cigno di Salò. Fino al crollo che trascinerà nel vortice anche lui. L’ammirazione di un comandante partigiano come Gianni Rodari lo salva dal linciaggio. Ma non potrà impedire l’ostracismo che sconta del dopoguerra. Né salvarlo dall’amarezza e dal dubbio di avere sbagliato. Continuerà egualmente a dipingere e a trovare clienti collezionisti e committenti coma la Fiat per quadri e illustrazioni. Ma incalzato dal maldivivere il suo immaginario sarà sempre più cupo, claustrofobico, frammentato. Le sue allegorie del mondo classico relegate a nicchie e segmenti, precipitate da protagoniste a comparse come domande senza risposta. Succede ad ogni uomo che vuole farsi Dio. Ma la pittura di Sironi resta grande, intensa, forte come un pugno allo stomaco, anche quando si misura con l’Inferno.

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