Il Novecento di Leone Piccioni
Intimità svelate
Una stagione culturale italiana lontana, un prezioso patrimonio perduto riprendono vita nel libro in cui il critico letterario ha raccolto una scelta corrispondenza intrattenuta con i grandi scrittori del secolo scorso. Da Saba a Pavese, da Bilenchi alla Ortese, da Gadda a Vittorini, a Bertolucci, Parise, Morante...
Si può realisticamente sostenere che non vi siano attualmente altri testimoni dellʼItalia letteraria del Novecento come Leone Piccioni. Ciò non semplicemente per lʼetà (è nato nel maggio del 1925), che gli ha consentito di vivere profondamente la lunga e straordinaria stagione culturale italiana, ma perché le sue relazioni con lʼambiente artistico nazionale sono state ricchissime, in qualità di raffinato critico (con una trentina di libri), di importante responsabile della Rai, di giornalista, di redattore di riviste (LʼApprodo, La Fiera) e di consigliere editoriale. Un insieme di straordinarie esperienze, che fa dire di un unicum, di una voce decisiva della seconda parte del secolo scorso, attraverso la quale siamo in grado di comprendere le tante e variegate questioni che hanno animato il Novecento letterario: dal rapporto letteratura-ideologia, alla vita dei movimenti letterari, al senso che hanno avuto la scrittura e lʼarte in una fase di grande cambiamento socio-economico, alle aspre dispute tra i gruppi letterari, così come le contrapposizioni presunte e vere fra singoli scrittori, una per tutte, come vedremo, la tanto sbandierata inimicizia tra Ungaretti e Montale.
Piccioni ci consegna nel suo recente libro intitolato Una intimità ormai impossibile edito da Pananti (info@pananti.com), dove già erano uscite le vivaci e pungenti Memoriette, la sua inesauribile scrittura, arguta e dotta, ma pure ironica da grande toscano, anche se nato a Torino, ed è uno sguardo prezioso sulle vicende novecentesche. Il titolo ci pare già molto indicativo, perché, comunque sia intesa quella intimità, è necessario svelarla, e in tal modo raccontare un pezzo significativo della letteratura nazionale, che è bene consegnare ai più giovani e dare così conto di una ricchezza che, guardando la fase letteraria attuale, ci pare proprio lontana. La figura di Piccioni si presenta come quella di un protagonista, e ciò anche perché è stato sodale, confidente, collaboratore e amico, dei grandi scrittori del Novecento: Ungaretti, Montale, Saba, Pavese Bilenchi, Gadda, Luzi, Parronchi, Betocchi, Vittorini, Bertolucci, per citarne solo alcuni. Un rapporto con questi grandi personaggi sicuramente paritario, per via del suo modo di fare critica, ampiamente riconosciuto e molto apprezzato come dicono le numerose lodi indirizzate ai suoi saggi o recensioni. Eppure pur riconoscendo le sue significative competenze e le importanti mansioni ricoperte, viene da chiedersi come sia stato possibile che egli abbia avuto relazioni non solo tanto ampie, ma, soprattutto, così profonde, pure affettuose che in molti casi sono da catalogare come “il migliore amico”: ne è una prova la corrispondenza cartacea (ben altra cosa rispetto alle volatili comunicazioni odierne), mostruosamente ricca (con circa duecento persone: amici, scrittori, poeti, artisti, tra cui le 300 lettere di Ungaretti, le150 di Betocchi, le 100 di Luzi, ecc.).
Leone Piccioni è stato sicuramente un critico acuto e un giornalista di grande professionalità (da ricordare le sue interviste televisive agli scrittori, tra cui una lodatissima a Montale), ma per motivare le tante adesioni alla sua persona si deve sottolineare questo raro, profondo, senso dellʼamicizia e lʼaffetto sicuro per le tante persone che ha frequentato. Lo dice con semplice forza Goffredo Parise, anche confrontando Piccioni con altri scrittori del tempo: «Volevo dirti quanto mi sia cara la tua amicizia… pensando a te e alla tua figura, nel suo complesso… vedevo con chiarezza come ti stagliassi, nettamente e quasi prepotentemente, da quelli… brave persone ma con cuore tiepido». Questo dono dellʼamicizia, di un cuore non moderato dalla tiepidezza, ma traboccante di slancio, è ciò che fa la differenza e si coniuga con forza alla figura di Piccioni, che forse gli deriva, suggerisce ancora Parise, da quella fede che tuttavia egli riesce a esercitare «nei sentimenti che prova». Dunque la famosa questione della pratica della fede, che diviene comunque un problema non indifferente per chi sa che lʼequilibrio, tra credo religioso e rigorosa professione, deve prevalere, ma certo gli attestati di stima che gli vennero da personaggi del mondo culturale laico se non marxista, come Pavese, Vittorini, Bilenchi, sono la migliore prova di una integerrima condotta. Ovvio poi che ci possano essere delle distanze anche significative sul ruolo da dare alla letteratura, e la posizione di Piccioni non è sicuramente la stessa di molti intellettuali di quel tempo, ma ciò fa parte della normale dialettica su una questione decisiva allora come oggi. E il ricordo che nel libro fa di Padre Mariano, il grande predicatore televisivo, personaggio assai noto nellʼItalia degli anni Sessanta, non è per dire di una figura di fede, ma della persona buona che invoca una maggiore attenzione per la parola di Cristo, anzi per il bene comune: uno spaccato peraltro quasi innocente del rapporto con certo clero, che ci restituisce quella semplicità di una stagione italiana decisamente lontana e che ci giunge come un prezioso patrimonio perduto.
Del lavoro critico di Leone Piccioni, dunque, si può dire della rigorosità e della passione che riversa sui libri dei suoi contemporanei, ma pure delle grandi intuizioni che sorprendono e “istruiscono” lo stesso scrittore. Le parole di Bilenchi (riferite al libro Sui contemporanei) sintetizzano bene il discorso critico che Piccioni compie: «Rivedendo complessivamente questi saggi … la tua è una critica che si distingue oggi dalle altre, perché prende un libro, lo legge, trova i legami con gli altri libri di uno stesso autore e, ricca di osservazioni assai giuste e per nulla divaganti, riesce utile anche allo scrittore analizzato». È la ricerca della verità nellʼopera dello scrittore, verità che, afferma Carlo Cassola, cʼè e che il critico vero sa trovare «al di là di ogni giudizio, di ogni interpretazione», come Piccioni aveva fatto analizzando il Taglio del bosco, e che portò Vittorini a dire, per uno scritto del critico sul Garofano rosso, «il migliore che su questo libro abbia avuto»; o lʼintuizione diaristica a proposito de La bella estate di Cesare Pavese, valutata con ammirazione dallo stesso Pavese: «… mi è piaciuta molto la sua recensione al libro. È la prima in cui vengono posti quesiti e informazioni che mi servono, mi insegnano qualcosa. La sua definizione di diario degli avvenimenti degli altri è utilissima e corrisponde ad antiche mie preoccupazioni intorno al problema».
E veniamo infine alla complessa disputa fra Ungaretti e Montale, che Piccioni tratta con ammirevole distanza, nonostante la sua grande vicinanza con Ungaretti, di cui fece la prima e più grande monografia. In sostanza Piccioni rifugge dal rinfocolare una polemica che indubbiamente ci fu ma non ebbe i colori dell’intolleranza, anzi porta elementi per dire il contrario: come gli interventi di Montale per lʼottantesimo compleanno di Ungaretti, festeggiato in pompa magna dal presidente del Consiglio Aldo Moro, con la presenza anche di Quasimodo (ironia della sorte: due Nobel per celebrare colui che incredibilmente il Nobel non ebbe), e lʼarticolo del poeta degli Ossi di seppia pubblicato sul Corriere in occasione della morte di Ungaretti. Ma Piccioni non può negare alcune mediocrità e spigolosità provenienti da ambo le parti, né esimersi dal citare la battuta che lo stesso Ungaretti gli disse a Napoli, abbracciandolo, appena sceso dal transatlantico che lo riportava dal Brasile, subito dopo che Montale fu nominato da Giuseppe Saragat senatore della Repubblica il 13 giugno 1967: «Montale è senatore/ Ungaretti fa lʼamore».