“La tempesta invisibile” di Dino Claudio
Guardando a Lazzaro
Coraggioso, nell’economicismo dominante della nostra società, “l’esistenzialismo cristiano” dell'autore che anche nel nuovo romanzo sceglie questa dimensione per decifrare il dramma interiore del protagonista
Apollo per tenere a bada Dioniso: cioè a dire una scrittura lucida, classicamente composta, per imbrigliare una materia oscura, esagitata, inquietante. Se questa era la scommessa di Dino Claudio a proposito della sua opera più recente, La tempesta invisibile (Medusa, 240 pagine, 20 euro), al vertice di una lunga e prolifica carriera di narratore e poeta, possiamo ben dire che egli l’abbia mantenuta felicemente. Ed era una prova piuttosto ardua. Si trattava infatti di rendere agevole anche a un lettore di oggi, spesso sviato da una letteratura evasiva intesa alla ricerca degli effetti più speciosi, una tematica inerente agli interrogativi spirituali più profondi. Problemi di sempre – il significato ultimo dell’esistenza, il rapporto con il divino, la solitudine dell’uomo alla ricerca di una risposta al male del vivere – che, nell’economicismo dominante della nostra società, si tende a eludere, o a confinare rigorosamente entro la sfera del privato, raramente vivendoli in comune come elementi della quotidianità. Ecco dunque il singolare coraggio (come dirlo altrimenti?) di Dino Claudio, quello di inscenare con le strategie del romanzo un dramma tutto interiore che attanaglia la coscienza del protagonista: un borghese rispettato, con una famiglia apparentemente felice, che ha avuto un discreto successo nella società. Da tempo Silvano Veneziani, uomo ancora giovane, funzionario ministeriale, sta vivendo una tempestosa crisi spirituale, “invisibile” per ora in quanto latente nella sua interiorità, ma destinata a esplodere drammaticamente coinvolgendo alla fine tutti i componenti della sua famiglia.
La narrazione è concepita in forma di diario e, in quanto tale, è attribuibile – nella sostanza e nelle forme – alla mentalità del personaggio: ma è evidente che essa ha la sua fonte nella sensibilità umana e religiosa dell’autore; così come a lui sarà riconducibile in ultima istanza la scelta espressiva, mantenuta, come si diceva, nei termini di compattezza strutturale e limpidezza di linguaggio. L’autore del resto ha sempre dichiarato la sua fedeltà alla tradizione, che significa “essenza immutabile dei valori”; e tra i “valori” dobbiamo certamente annoverare quelli della religiosità cristiana e cattolica, come pure un dettato lineare e composto quale epifania di una coerente integrità morale. Ora è pur vero che tale compostezza formale può apparire in contrasto con l’angoscioso conflitto patito dal protagonista e il frammentarsi della sua febbrile personalità. Ma – a nostro avviso – il libro non andrebbe comunque letto in chiave naturalistica, di banale mimesi della realtà, quanto piuttosto come rappresentazione simbolica di una verità più profonda di significato trascendente. In questo senso ci spieghiamo perché le pagine più efficaci risultino quelle, davvero senza tempo, di una visionarietà mossa e straniata – le allucinate percezioni che il protagonista ha del mondo che lo circonda, negli oggetti domestici o persino in ufficio allorché vede deformarsi in modo grottesco i volti stessi dei suoi interlocutori; o le improvvise impennate liriche di alcuni squarci paesistici, il benefico lavacro della pioggia che cade sulle vetrate, o una certa Roma notturna, tra statue e fontane, surreale e luminescente come nella pittura di Scipione; o infine l’irruzione improvvisa nel quotidiano di personaggi quasi fantasmatici, dotati di luce interiore e straordinario carisma, come l’enigmatico volontario che si prende cura della figlia paralizzata del Veneziani, larvata prefigurazione del Cristo, certo il richiamo possente, nella travagliata coscienza del protagonista, a una spiritualità perduta.
Come nelle tragedie greche, c’è, a ridosso della catastrofe, una pausa di raccoglimento intimo, allorché il protagonista, quasi a ritrovare la serenità di un tempo, si rifugia presso la madre nel nativo paese di cielo e di mare, tra i vecchi pescatori felici nella loro semplicità – e sono pagine luminose, che non cedono mai al pittoresco di maniera. Ma è, appunto, solo una breve parentesi; perché, tornato a Roma, egli ricadrà nella solitudine irrimediabile del suo dramma. In un passaggio del racconto si chiarisce che il trauma era avvenuto nella prima giovinezza di cattolico militante, quando a Lourdes per accompagnare un bambino infermo, aveva invano pregato e sperato che un miracolo si compisse: allora la profonda delusione aveva indotto l’incredulità. L’implacabile superbia della ragione aveva preteso poi di spiegare l’assurdo per cui un Dio padre permetta il dolore nel mondo. Terribile enigma, davvero, dove la ragione, dono di Dio, sembra entrare in conflitto con se stessa, e quindi con il divino. Ma sarà certo significativo che l’autore, fin dall’inizio, ci abbia richiamato in esergo all’ammonimento agostiniano: «per cantare il canto nuovo debbo amare le cose eterne». Un difetto d’amore, dunque, travolge il protagonista del libro in un vortice tragico: la morte della figlia primogenita, il divorzio dalla moglie, la fuga del piccolo Carmelo, che il padre crede annegato nel Tevere, infine il tentato suicidio. Con abile espediente narrativo qui lo scrittore inserisce, tramite uno stacco improvviso, un terzo piano del racconto. Dopo la verità dell’autore e quella del personaggio, il congedo di una voce fuori campo: la lettera di un sacerdote che, a distanza di tempo, informa il giovane Carmelo, evidentemente sopravvissuto, sugli ultimi istanti di suo padre. Cosciente nella breve agonia, aveva ricevuto i sacramenti e, al richiamo del passo evangelico sulla resurrezione di Lazzaro, aveva annuito senza parole in segno affermativo. Così, con rara efficacia nella discrezione di una dissolvenza tutta allusiva, si riafferma quello che è stato spesso definito “l’esistenzialismo cristiano” dell’autore: una visione religiosa certo drammatica e tuttavia rasserenata.