Storie ritrovate
Elegia per Gus
Provate a rivedere “L’amore che resta“ di Gus Van Sant: un inno poetico alla vita e alla libertà di scelta. Soprattutto quando si entra in contatto con la morte
Era un uomo d’altri tempi. Dal salgariano spirito d’avventura e vinciano eclettismo. Era un ossimoro. Nobile decaduto di antiche origini austroungariche e profetico cantautore folk. Appassionato estimatore di Paperino come del grande melodramma italiano ottocentesco. Amava e odiava visceralmente la terra dove era nato e cresciuto come gli uomini e le donne di Revelli, quell’autore a lui tanto caro e guardava al mondo che aveva bandito ogni presenza animale dalle strade per venerare quel dio a quattro ruote tanto affamato di petrolio con distacco e consapevole diffidenza. Capitò una volta, durante una delle sue innumerevoli escursioni alpine, di avere un incidente di più che discreta gravità. Si trovava in un ghiacciaio quando si ferì alla testa. Somministratosi le prime cure sul posto passò l’intera notte nel gelido buio della montagna per tornare a valle solo alle prime luci dell’alba dove, finalmente, si recò da un medico.
E in montagna sulle rive di un ruscello dalle acque cristalline passò gli ultimi anni della sua vita, in una casa che pareva una gemma incastonata nel Tempo. Nel comò liberty della sua camera da letto lasciò che una gatta randagia vi partorisse i suoi piccoli mentre con quell’entusiasmo che era solito riservare a ogni sua impresa grande o piccola che fosse organizzava cacce al tesoro o costruiva case sull’albero per quella figliastra che amava, sgridava e viziava come se fosse stata sua.
Un giorno bussò alla porta la malattia. Poi fu la volta della rabbia e della frustrazione perché un uomo che ha sempre preso a morsi la vita, seppur con eleganza e profonda civiltà, non può accettare che sia qualcun altro, o peggio, qualcos’altro a decidere quando è il momento di andarsene. E di altrettanta rabbia e frustrazione furono la fonte amici, amanti e perbenisti, filosofi e bigotti, con i loro consigli, i loro dogmi, l’inconsapevole e innocente egoismo e le loro malcelate paure, sempre così instancabilmente pronti a dir lui come si gioca a scacchi quando si ha come dirimpettaio l’oscuro mietitore.
Durante una fredda notte d’autunno una serie di telefonate spezzò il silenzio di una città ancora imbambolata dal sonno. Era scappato, evaso dal reparto ospedaliero che era ormai divenuto la sua fissa dimora. Lo ritrovarono in montagna, fra i suoi libri, i suoi vini, i suoi strumenti musicali, avvolto nel pulviscolo elettrostatico di mille pensieri. Se ne andò che era inverno. All’alba di una mattina uggiosa.
L’amore che resta (Restless, 2011) di Gus Van Sant è un peculiare e poetico inno alla vita e alla libertà di scelta. Intriso di bellezza e colte citazioni letterarie, cinematografiche, musicali e estetiche, il film racconta in punta di piedi e senza intellettualizzazioni i paradossi, l’unicità e la difficile metabolizzazione con tutti i suoi strambi meccanismi che sono propri della nostra passeggera natura quando la morte ci chiama a sé. E per farlo sceglie una morte difficile, quella che non ha un perché se non di carattere scientifico, quella che arriva prima del tempo, in gioventù, quando ci sarebbe ancora tutto un lungo e misterioso cammino da percorrere.
Va così in scena l’assurdo quanto lirico incontro tra due adolescenti, Enoch Brae (Henry Hopper) e Annabel Cotton (Mia Wasikowska). Lui è un sopravvissuto, un orfano segnato dalla prematura dipartita dei suoi genitori, guidato da un’insolita pulsione che lo spinge a partecipare a funerali di persone che non conosce. Ed è a uno di questi che incontra Annabel, una giovane la cui grazia e fragile bellezza ricordano tanto la Mia Farrow sul finire degli anni sessanta. Annabel è affetta da un cancro incurabile ed è più che consapevole di avere i giorni contati eppure, giorno dopo giorno, attraverso la sua passione per le scienze naturali, costruisce e solidifica il suo legame con il mondo che la circonda studiandone ogni forma di vita.
Enoch e Annabel si approcciano alla morte trascendendo ogni schema, ogni script, ogni convenzione. Le loro imprese si incrociano con quelle di familiari, conoscenti, amici ed estranei che a fatica capiscono, che cercano a tutti i costi di proteggerli da se stessi con amore e involontaria ingenuità mentre a loro volta sono impegnati nell’ardua e straziante impresa di far fronte al proprio dolore di testimoni.
L’amore che resta (ma perché si traducono sempre così male i titoli dei film?) propone con immensa grazia un quesito scomodo, complesso, difficile: fino a che punto si può intervenire sul modo proprio di affrontare un periodo tanto importante della vita quando la vita è quella di un altro? Fa pensare, fa pensare molto. E riporta anche alla memoria uno spot di un paio di anni fa nel quale un signore cercava di spiegare l’importanza della scelta… di poter scegliere da soli quale strategia adottare quando si gioca a scacchi avendo come dirimpettaio l’oscuro mietitore.
E allora sorge un dubbio ulteriore. Forse il vero significato di civiltà sta nel sapere accettare le altrui visioni e gli altrui intimi bisogni nella loro labirintica complessità soprattutto quando questi sono più che mai in antitesi con i nostri.