La storia e le eterne emergenze italiane
Il cerotto di Genova
Dopo il disastro di Genova si è parlato solo di rimedi, mentre serve una soluzione, ovvero la capacità di affrontare la questione del degrado ambientale con una visione allargata e sistematica
Flashback. Circa 80 anni fa, esattamente il 18 maggio 1933, Franklin Delano Roosevelt (FDR), Presidente in carica da meno di 3 mesi, firmava il Tennessee Valley Authority Act allo scopo innanzi tutto di promuovere lo sviluppo economico di una regione sulla quale la depressione seguita alla crisi del ’29 si era particolarmente accanita. L’obiettivo inoltre era la difesa dell’ambiente dal rischio di inondazioni, una piaga per gli Usa, dove in pochi anni si erano registrate due tragedie di grandi dimensioni: il disastro del Mississipi nel 1927 con 246 morti e il collasso della diga del St. Francis l’anno seguente, con 600 vittime. Infine era necessario rendere sicura la navigazione in quel bacino idrografico di importanza strategica. Oggi la Tennessee Valley Authority è il principale fornitore di energia elettrica degli USA, ed è stata dichiarata di rilevanza costituzionale dalla Corte Suprema.
Poco più di 2 anni dopo – il 30 settembre 1935 – FDR inaugurava un’opera per i tempi ciclopica: la Hoover Dam, così chiamata per il ruolo svolto come mediatore nel 1922 da Herberth Hoover, all’epoca segretario al commercio, per mettere d’accordo sulla distribuzione delle risorse idriche del fiume Colorado i governatori degli Stati interessati al progetto. La diga è nota anche come Boulder Dam, dal nome di un canyon dei dintorni; Ickes – segretario di Stato durante la prima presidenza di FDR – ebbe a dire rabbiosamente: «I didn’t know Hoover was that small a man to take credit for something he had nothing to do with» (“non ritenevo Hoover tanto meschino da accreditarsi per qualcosa con cui non aveva nulla a che fare”).
Si tratta di un’opera (nella foto qui accanto) alta 221 metri e lunga 201 metri alla base: all’epoca, la più grande struttura in calcestruzzo ed allo stesso tempo il più potente impianto di produzione di energia idroelettrica degli Usa. Larga alla base 660 piedi (183 metri) e 45 (14 metri) alla sommità, funge anche da ponte autostradale tra l’Arizona ed il Nevada; da essa ha avuto origine il lago Mead, il più grande bacino artificiale nord-americano. Non fu una impresa semplice: all’inizio si rese necessario scavare un by-pass nelle rocce del canyon per deviare il fiume e consentire i lavori; quindi si dovette erigere 2 dighe ulteriori – a monte e a valle del sito – per proteggere gli addetti al cantiere della diga principale. Fu quindi indispensabile rimuovere gli strati friabili di roccia dalle pareti del canyon: una operazione che si rivelò estremamente pericolosa per quelli che vi presero parte (i cosiddetti “high scalers”, o arrampicatori d’alta quota). Alla fine si contarono 112 morti accertati. La IWW (Industrial Workers of the World) cercò di riunire gli operai in un unico sindacato; ma il tentativo fallì, nonostante la riduzione di salari operata dal gruppo appaltatore, nonché una serie successiva di licenziamenti e di manifestazioni bloccate con la minaccia dell’intervento della polizia. Una vicenda sulla quale anche oggi si potrebbe discutere.
Nonostante questi e molti altri problemi che non è il caso qui di ricordare, il consorzio SixCompanies Inc. riuscì a completare l’impresa in 4 anni, in anticipo di oltre 2 anni (!) sul programma. Un aspetto sul quale varrebbe la pena di riflettere, se si pensa che il progetto EXPO 2015 è stato assegnato a Milano alla fine di marzo 2008 …
Per concludere: la prima presidenza di FDR fu un quadriennio di attività turbinosa. Ricordo in breve: l’Emergency Banking Act e il Glass-Steagall Act per stabilizzare l’economia e ripristinare la fiducia nel sistema bancario; il lancio dei Civilian Conservation Corps (CCC), un progetto che assorbì 250.000 disoccupati in attività agricole locali; il National Industrial Recovery Act per ridisegnare il “sistema delle regole industriali” e soprattutto per combattere la deflazione contribuendo ad innalzare i prezzi (con l’introduzione di prezzi minimi) stimolando così la ripresa economica. Per non parlare dell’Executive Order 6102, con il quale il dollaro veniva svalutato del 41% rispetto all’oro, rendendo le merci statunitensi fortemente competitive sui mercati internazionali… ma conviene fermarsi qui. Erano quelli tempi difficili, che richiedevano una politica alta, audace ed allo stesso tempo in grado di guardare lontano.
Oggi viviamo tempi altrettanto, se non più difficili. L’Italia è l’unico grande Pese europeo per il quale si prospetta un peggioramento del Pil, una crescita del debito pubblico e della disoccupazione… potrebbe bastare; ma non è così. Leggo sui giornali e seguo alla tv il disastro di Genova, e mi chiedo cosa provo. Rabbia, indignazione? No, il termine giusto – se la redazione di Succedeoggi me lo passa – è incazzatura. Sono profondamente, violentemente incazzato. Non certo per lo squallido teatrino che solitamente accompagna questi terribili eventi: il gioco del rimpallo e dello scarica barile tra politici, tecnici (ieri i geologi, oggi i meteorologi) e burocrati, la matassa inestricabile di lacci e impedimenti che incombe sullo sfondo (gli stanziamenti non spesi o non approvati o non pervenuti, i ricorsi al Tar ecc.).
No, non è questo il motivo della mia reazione. La ragione sta nel vedere riproporsi quella che chiamerei, in assenza di una idea migliore, la cultura del cerotto. Si parla di manutenzioni, di rimedi, di bonifiche e quant’altro: là dove si richiede viceversa una soluzione, ovvero la capacità di affrontare la questione del degrado ambientale con una visione allargata e sistematica. Provo a spiegarmi meglio con un esempio: secondo i dati di Regione Lombardia si contano nel territorio oltre 44.000 (!) aree di frana. La figura mostra come queste si distribuiscano negli oltre 1500 Comuni (fonte GEOGalileo):
Scontata la presenza di frane nelle aree montane, ciò che maggiormente impressiona è la concentrazione del fenomeno nel triangolo meridionale a sud di Varzi. È infatti evidente che siamo qui di fronte ad un problema complessivo, che è qualcosa di più che la semplice somma di una miriade di casi isolati. Ed è altrettanto certo che, se da un lato sarebbe ridicolo pensare di “azzerare” un sistema collinare come questo, allo stesso tempo non si può non riconoscere la responsabilità della mano dell’uomo in un simile dissesto. Mi chiedo perciò: ha senso cercare di “rimediare” localmente di volta in volta a ciascuno di quei movimenti del terreno come se stessimo applicando – per l’appunto – un cerotto? O non sarebbe viceversa meglio, in una prospettiva di lungo periodo, guardare all’intero fenomeno nella sua complessità e puntare ad un progetto, certamente ambizioso, in grado di evitare che il denaro pubblico si disperda in un dedalo di piccoli rivoli che non porteranno mai alla soluzione del problema?
Milano e Genova condividono per certi versi un comune quadro idrologico. Nessuna delle due si affaccia su un grande fiume; entrambe sono intersecate da una rete di corsi d’acqua minori, di modesta portata in tempi normali; fattori di devastazione in presenza di forti perturbazioni. L’Olona, il Lambro, il Seveso, il Garbogera a Milano; il Bisagno, il Fereggiano, il Lentro, il Trensasco, il Cicala a Genova. In tutti e due i casi nel sottosuolo si è sedimentato col tempo una rete di canali complessa. Oggi si parla del mancato completamento della copertura del Bisagno come causa principale del disastro («ripartono i lavori […] paralizzati dalla fine del 2011. Il semaforo verde è arrivato ieri dal Tar del Lazio»: così annunciava il Secolo XIX il 17 luglio scorso). Personalmente sarei cauto: l’esperienza di Milano ha dimostrato come la cosiddetta “tombinatura” – nella fattispecie del Seveso – possa col tempo diventare un gravissimo fattore di rischio. A luglio il Seveso è esondato ben 3 volte; in 3 casi il cunicolo sotterraneo, che scorre anche in prossimità della stazione metropolitana di piazzale Istria, non è stato in grado di smaltire l’onda di piena, ed inoltre è soggetto all’accumulo di detriti trascinati dalla corrente. L’immagine di valanghe d’acqua che, precipitando dalle ripide colline circostanti il capoluogo ligure, si infila in un canale sotto le strade cittadine non è, almeno per me, tra le più rassicuranti.
A Genova come a Milano, in Liguria come in Lombardia è necessario affrontare radicalmente e in una prospettiva di lungo periodo il problema dell’acqua e quello più generale del dissesto ambientale. Una sfida enorme; ma al tempo stesso una grande opportunità in termini di occupazione: come furono la Hoover Dam e le altre grandi opere promosse dall’amministrazione Roosevelt.
Qualche lettore a questo punto, guardando alla prima parte di questo scritto, penserà tra sé: ci risiamo … ecco un altro che vorrebbe resuscitare un New Deal riveduto e corretto. Non è così; lungi da me la velleità di proporre piani specifici di riforme economiche e sociali. Mi limito ad auspicare un cambiamento nella cultura politica del nostro Paese, e nel modo in cui essa oggi guarda ai problemi, quasi sempre nell’ottica effimera di breve o brevissimo termine, che è poi quello della vita del governo o della legislatura. Che si tratti del risanamento ambientale, della ripresa dell’economia o del rilancio dell’occupazione: in ogni caso si richiede una cultura capace di progettare la complessità affrontandola per intero e con un orizzonte temporale lontano. Caratteristiche e competenze di cui fatico a vedere traccia anche attraverso il filtro rappresentato dal disastro di Genova.
Lo scrittore Maurizio Maggiani, intervistato da Repubblica, ha detto sabato scorso: «Dobbiamo imparare a vivere nel disastro se vogliamo vivere». No, caro Maggiani, non sono d’accordo; dobbiamo imparare ad affrontare il disastro alla radice e nella sua complessità per risolverlo una volta per tutte. A meno che la disaffezione verso il proprio Paese sia tra noi divenuta inavvertitamente un fenomeno endemico: le montagne crollano, i fiumi straripano, le opere d’arte vanno in malora … pazienza, fintanto che tutto questo non ci tocca da vicino.