Alberto Fraccacreta
“Aurore d’autunno” a cura di Nadia Fusini

Ritorno a Stevens

In straordinario anticipo su molti “colleghi” del secondo Novecento, il poeta americano mette in opera un’intuizione comprensibile soltanto attraverso la più genuina esperienza letteraria: la trascendenza nelle cose, all’interno del reale. Come dimostra nella raccolta che segnò la sua svolta lirica, ora pubblicata da Adelphi

L’aurora boreale è un fenomeno ottico, provocato dall’atmosfera terrestre, che si manifesta sottoforma di “archi aurorali” – bande luminose (o numinose?) di differenti colori – i quali, a loro volta, cagionano nell’occhieggiare esterrefatto degli astanti un’emozione di pura bellezza e sgomento. Anzi: “mista a”. L’amalgama di queste due affezioni trascolora d’angosciosa quiete quel panorama che diviene ora parte dell’animo, avvinto e contrito, tenue e speleologo, scisso e legato: in una sola geldra. L’interno ventricolare si disfa. Il capo reclina a nord-est, come mosso da fili invisibili. Un «pallore da clorosi», direbbe Carlo Emilio Gadda, coglie il viso e il rigonfio pensiero retrospettivo, l’esser dinnanzi, in ascolto, a uno zirlo di non diniego, cioè di accenno, di assenso, trasalimento.

«Componi al buio e aspetta/ l’aurora boreale nel lungo tentativo,/ ma non aspettarti mai/ cascate di luce» tuona Seamus Heaney in una delle sue liriche più avvincenti. Il tentativo è appunto quello di potersi donare gratuitamente allo spettacolo, nel tan tan feroce dell’affanno corpusco-crepuscolare, a un palmo di evanescenza. Eppure: non ci saranno cascate di luce. Il dono della natura tacita, a cui senza indugio ci doniamo, rivela di non avere in serbo alcuna rivelazione. E in ciò essa si dimostra innocente. Questa è la sommaria filosofia poetica di Wallace Stevens, nel libro che segnò la sua svolta lirica, pubblicato nel lontano ’50, oggi tradotto (Aurore d’autunno, trad. it. Adelphi, 273 pagine, 23 euro) per capire approfonditamente quali felici connivenze ebbe con il cosiddetto “modernismo” di Eliot e Pound, e da lì con l’intera poesia contemporanea.

«Il tema dell’innocenza flette il tono apocalittico e svuota l’attesa di una rivelazione. Queste luci non vogliono nulla. Fanno parte, appunto, di una terra né benigna né matrigna, ma indifferente: di un’indifferenza che ci salva, tuttavia. Perché non vuole nulla da noi, se non che restiamo raccolti in essa, come bimbi nel sonno, riconoscendo che il male e il bene non sono un’intenzione della terra» suggerisce, nella prefazione, la curatrice del volume Nadia Fusini.

cop StevensWallace Stevens è un omone americano in elegantissimo smoking sbretellato, chiuso al lume del suo studiolo a meditare le pure essenze, abbarbicato in una severa disciplina letteraria, amante del baudelairiano Stile squisito. I suoi simboli d’intricato pensiero si traducono nell’altalenare di un’immanenza in après-coup, un fedele richiamo alle ragioni ulteriori non già di natura metafisica – annullata dall’accettazione ormai totale (o totalizzante?) dell’hic et nunc come unica presenza possibile – ma etica. In Large red man reading gli spettri terrigni, stanchi di trascendenza, tentano di ritornare alla realtà per leggere nuovamente, assieme all’uomo in carne e ossa, i segreti della biologia. «C’era chi tornava per sentirlo leggere dal poema della vita,/ Della pentola sulla stufa, la brocca sul tavolo, i tulipani./ Erano quelli che avrebbero pianto pur di entrare scalzi nella realtà,// Avrebbero pianto di gioia, tremato di freddo nel gelo,/ E gridato pur di sentirlo ancora, avrebbero accarezzato con le dita le foglie Le spine più acuminate, afferrandosi al brutto,// E ridendo, mentre lui seduto leggeva, dalle tabulae di porpora,/ I lineamenti dell’essere, le sue espressioni, le sillabe della sua legge:/ Poesis, poesis, le lettere, i caratteri, i versi ispirati,// Che in quegli orecchi e in quei cuori sottili, esausti,/ Prendevano forma, colore, e la misura delle cose così come sono,/ E dicevano per loro emozione, che era ciò che era loro mancato».

Se vogliamo essere puntigliosamente logici, questa carenza dell’elemento trascendente rispetto alla sporgenza dell’immanente non certifica la sua non-esistenza (se non-A è B, B può essere A): nell’incanto delle aurore, nel grembo accogliente della terra, nella prosopopea degli alberi, degli assenti, delle cose inanimate si coglie una coincidenza significativa tra i due diversi piani cognitivi. Come per molti poeti del secondo Novecento, ma in straordinario anticipo su di essi, Stevens mette in opera un’intuizione unicamente poetica, comprensibile soltanto attraverso la più genuina esperienza letteraria: la trascendenza nelle cose, all’interno del reale.

«Il secco eucalipto cerca dio nella nuvola piovigginosa./ Il professor Eucalipto di New Haven lo cerca/ A New Haven con un occhio che non guarda// Oltre l’oggetto. Siede nella sua stanza, accanto/ Alla finestra, vicino alla gronda rotta/ in cui la pioggia cade con suono rotto. Cerca// Dio nell’oggetto stesso, senza altra scelta./ La scelta è dell’aggettivo più adatto/ A ciò che vede, si riduce infine a questo:// La descrizione che lo fa divino, discorso che s’arresta/ Quando tocca il punto del riverbero – non la realtà cruda/ Ma la realtà vista crudamente// E detta nell’idioma paradisiaco, nuovo/ E in ogni caso mai crudo, la crudezza umana/ Essendo parte dell’indifferenza dell’occhio// Indifferente a ciò che vede. Il ting-tong/ Della pioggia nella gronda non è un sostituto./ È parte dell’essenza ancora non ben percepita».

Il professor Eucalipto, alter-ego del poeta, sostiene la vista dell’oggetto sfogliandone il contenuto nella sua crudezza, cioè nel suo “essere presente” contro ogni alterazione dell’occhio che pure vorrebbe torcerlo a un proprio contenuto. Ciò che Stevens sperimenta, mediante l’esercizio estatico della parola, non è la dissoluzione della trascendenza, bensì lo scioglimento, oserei dire, “spirituale” del senso della funzionalità (per citare Daniil Charms) con cui un soggetto domina a sé la schiera variegata degli oggetti di cui dispone.

La fine della dicotomia cartesiana, il suo autunno gelato, coincide con l’alba – l’aurora boreale – di una nuova percezione delle cose, alla quale bisogna aggiungere, senza più rimandare (e questa è una nostra pecca), il posto dell’amore.

Si trema a sentirci così capiti e, alla fine,

A capire, come se conoscere diventasse

La fatalità di vedere le cose troppo bene.

 

 

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