Beppe Navello
A proposito della riforma del teatro

Un teatro all’europea

Nei rapporti tra Stato e spettacolo cambia tutto: dai criteri di finanziamento a quelli di valutazione delle progettualità. C'è chi teme queste novità, che invece andrebbero affrontate come un'opportunità che aspettavamo da (troppo) tempo

Sta suscitando diffuse ma ancora sommesse preoccupazioni la riforma dei regolamenti per lo spettacolo dal vivo che il Ministero per i beni e le attività culturali e il turismo introdurrà dal primo giorno dell’anno 2015 nella vita stenta del teatro italiano. Il mugugno, l’insoddisfazione e la frustrazione sono da sempre di casa tra i teatranti: ma adesso un’inquietudine inespressa, una insicurezza nei confronti del futuro anche prossimo si sono impadroniti degli operatori e degli artisti. Sopravvivremo nel nuovo ordine, si chiedono i più?

Pensate che invece mi accade, dopo tantissimi anni, di essere ottimista e curioso, anzi impaziente, di vedere come andrà a finire. Abbiamo tutti trascorso le migliori età della vita a programmare nell’incertezza, a ridurre progressivamente le ambizioni e le previsioni di investimento, a pagare spese bancarie crescenti in modo esponenziale per fronteggiare ritardi di anni nell’erogazione dei contributi pubblici, a eliminare quasi del tutto attività che da secoli erano creazioni del genio italiano, esportate in tutto il mondo, come la scenografia, la costumistica; abbiamo quasi soppresso mestieri antichi e raffinati (ci sono ancora direttori di palcoscenico veri nel nostro teatro? Attrezzisti? Truccatori e parrucchieri?): le nostre ambizioni progettuali si spingevano al massimo verso monologhi con un musicista e dialoghi possibilmente senza musicista. Avendo resistito ad oltranza nei confronti di questa deriva, mi sono sentito spesso in colpa verso produttori scontenti di dover scritturare addirittura sei/sette attori; ed infatti mi sono limitato a un’attività morigerata o, se preferite, alla pigrizia operosa di non più di una regia l’anno: guardando senza invidia confratelli in arte costretti a troppe e non sempre tranquillizzanti avventure produttive. Abbiamo organizzato convegni e seminari inutilmente documentati per denunciare l’insopportabile confronto con i sistemi di altri paesi europei non soltanto la Francia e la Germania ma il Belgio, l’Olanda, la Polonia e i paesi dell’est, fino alla Bulgaria.

E adesso? Dovremo cambiare nome, certo, e quindi identità. Quel vecchio, simpatico sostantivo, “stabilità”, che dava sicurezza e attribuiva qualche patente di nobiltà non esisterà più e si sa che ai cambi di nome corrisponde inevitabilmente un cambio di identità: forse è questo che fragilizza ulteriormente la nostra già scarsa capacità di immaginare il futuro? È la paura di non sapere cosa accadrà delle nostre azioni, delle nostre imprese, delle reazioni del nostro pubblico di fronte a inevitabili modifiche dei comportamenti?

Se cerco di immaginarlo, quel futuro, mi dico che dovremo realizzare in breve tempo quel che avevamo auspicato invano nei convegni di cui sopra: produrre molto di più, in particolare realizzando ore di lavoro produttivo e artistico; scritturando cioè molti più attori, musicisti, scenografi, costumisti, registi di quanti abbiamo mai sperato di immaginare; limitando al massimo l’ospitalità e gli scambi, quindi imprimendo al cartellone, all’attività, un carattere fortemente identitario, personale, riconoscibile (il sogno finale di ogni direttore artistico); con l’incoraggiamento (anzi, oserei dire, l’autorizzazione perentoria) a promuovere attività oltre confine, coproducendo con palcoscenici di altri paesi; per un teatro come il mio, nato per sottrarsi il più possibile alla ripetitività ossequiosa dei comportamenti italiani e per guardare altrove (più di dieci coproduzioni internazionali in sette anni), è quasi una consacrazione; cercando di saltare le divisioni formali e gli steccati tra i generi che nella creazione contemporanea sono ormai anacronistici e restano appannaggio di qualche giornale invecchiato insieme ai suoi critici specializzati. E infine, potendo immaginare i tre anni a venire come succede in qualunque impresa che voglia darsi un futuro.

Tutto bene, quindi? Nessun problema? Tantissimi problemi e incertezze ma una formidabile opportunità. Proviamoci, allora, a diventare un po’ meno vili, un po’ più europei. Sono anni che la Direzione Generale per lo spettacolo dal vivo ha elaborato questa riforma e, se adesso la sta portando all’approdo, occorre sperare che abbia la forza per difenderla fino in fondo. Ci sono certamente aspetti che non piacciono: dovuti al fatto che l’Italia non è un paese normale, di consolidate abitudini amministrative e di funzionamento efficiente? Per esempio, la preoccupazione che suscita il definitivo relegare la progettazione artistica sotto la tutela della gestione organizzativa, è giustificabile soltanto come misura definitiva contro il malcostume di certi direttori registi della nostra storia recente; e immaginare i teatri nazionali con la programmazione affidata quasi esclusivamente alle proprie produzioni, non significherà abbandonarli alla spietata concorrenza di mercato dei privati che potranno spadroneggiare con le proposte più accattivanti e commerciali del repertorio? Vedremo cosa accadrà, ma un periodo di vigilanza e di verifica dei risultati sarà inevitabile…

Resta un dubbio fortissimo: quello delle risorse. Non c’è più nessuno che nel dibattito pubblico italiano sostenga la tesi che “con la cultura non si mangia”: tutti si sono vergognati di quelle parole, tutti citano studi economici bocconiani che garantiscono una ricaduta sul pil di tre, quattro, cinque volte l’investimento, tutti proclamano che la specificità italiana è la difesa, la valorizzazione e la diffusione della propria cultura; e tutti, quando arriva il momento dei bilanci, da anni, sono rassegnati all’inevitabile rito dei tagli al FUS e alle altre attività culturali. Nel 2006 ho avuto l’onore di lavorare alla Fabbrica del Programma di Prodi: ne uscì un documento articolato e totalizzante, messo insieme da tutti i settori della vita pubblica italiana, poi dileggiato perché, ovviamente, occupava 270 pagine di buoni propositi. La cultura ne ebbe a disposizione, se non sbaglio, una trentina: dunque non poche e soprattutto precedute dall’affermazione di Prodi che il suo futuro governo avrebbe aumentato la spesa per la cultura nel corso dei cinque anni di legislatura fino ad arrivare all’1% del PIL, muovendo da quel “miserabile” 0,30 circa al quale ci si era ridotti all’epoca. Sappiamo come naufragò il governo Prodi dopo neanche due anni: ma quella speranza storica mi è tornata alla memoria leggendo, su Il fatto quotidiano dell’8 agosto scorso, la bella intervista dell’Ambasciatore di Francia in Italia, Alain Le Roy, che saluta il nostro paese ricordandoci che non andremo da nessuna parte se continueremo a investire lo 0,20 del PIL (lui dice lo 0,20 ma gli ultimi calcoli parlano di una percentuale vicina allo 0,10) contro l’1% della Francia.

Il Ministro Franceschini ci ha pensato quando ha detto che si augura che l’epoca dei tagli sia finita e possa cominciare quella dell’aumento delle risorse? Voglio sperare che sia così e che l’inversione cominci con il Capodanno 2015, con l’entrata in vigore del nuovo regolamento.  Buon anno e buona riforma a tutti!

Beppe Navello è direttore della Fondazione Teatro Piemonte Europa

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