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Simenon sul Bosforo
Grande atmosfera nel romanzo dello scrittore belga ambientato a Instambul, una città che una volta conosciuta diventa irrinunciabile... Un po' come Roma, a cui Filippo La Porta ha dedicato un saggio che rivela un innamoramento perplesso. Poi c'è il ritorno dell'autore del “Fantasma dell'opera”...
A Istanbul – I romanzi di Simenon, a parte la trama e il ritmo incalzante che consente all’autore di insistere sul profilo psicologico dei protagonisti (a volte con una semplice pennellata narrativa), sono caratterizzati dalla cosiddetta “atmosfera”. Nell’ultimo tradotto dalla Adelphi è quanto mai marcata (I clienti di Avrenos, 157 pagine, 17 euro). La vicenda si svolge a Istanbul «dalle cui case arrivava un odore dolce e speziato insieme, che è poi l’odore di tutta la Turchia», assieme a un misto di languore e spossatezza, soprattutto nei bellissimi tramonti che, quasi struggenti, paiono far rimandare le esistenze a un domani il cui contorno sognante sembra sfuggire a tutti. È Istanbul la vera protagonista di una vicenda che coinvolge Bernard Jonsak, “dragomanno” (parola che indica l’interprete di lingua araba), presso l’ambasciata di Francia. È una sorta di tuttofare che incontra Nouchi, intrattenitrice in un locale di non alta reputazione. Un lieve corteggiamento – elemento che non scomparirà mai dalla loro enigmatica unione – e poi la coabitazione in un elegante appartamento della capitale turca. Jonsak, costantemente pervaso dal disagio, si chiede spesso che significato abbia il «girare a vuoto in un universo inconsistente». Con un abito elegante ma logoro e l’inseparabile monocolo che sembra un paravento contro le emozioni, prende atto di una confidenza intima di Nouchi (che non riveliamo, ovviamente), donna appagata solo quando «era al centro dell’attenzione… e quella era l’unica cosa di lui che le importasse… si sentiva bella e desiderata… non immaginava felicità più grande».
All’inizio l’ex ballerina, di origine ungherese e dall’adolescenza sessualmente torbida in un contesto di grande povertà, considera noiosi gli amici di Bernard, ma alla fine li fa giocare attorno a sé, con abilità seduttive malgrado il matrimonio segreto con il consigliere dell’ambasciata. Ed è sempre lei a indurlo a fare la corte all’introversa Lelia, ricca di famiglia ma instabile di carattere. Bernard, pur legato alla disinvolta Nouchi, obbedisce anche se «dal punto di vista fisico non la desiderava». Senza sospettare della presenza di Nouchi in casa, Jonsak la possiede, quasi con rabbia. Lelia, che dice e non dice con la sua anima sostanzialmente contradditoria verso se stessa e il mondo intero, “cede” lasciando «che lui la baciasse senza opporsi, e senza provare, del resto, né rancore né ripulsa, come si accetta il proprio destino». Ma dopo la comparsa di Nouchi avviene la tragedia. Lo scandalo è sopito dietro la cortina della rispettabilità alto-borghese. E Bernard? Continua la sua indolente vita nel Bosforo, immerso nei «tramonti purpurei sul Corno d’Oro». Continua a vivere con Nouchi, smaniosa di essere «la più importante». Jonsak «aveva bisogno di lei come aveva bisogno di svegliarsi in un raggio di sole, di vedere i clienti di Avrenos a pranzo e di vagare per la città la sera». Un amico gli dirà: «Chi ha conosciuto la nostra città non può più farne a meno, vero?».
La capitale – Magnifica, seducente, ma sostanzialmente inafferrabile. Filippo La Porta, nel descrivere i suoi mille volti, evita accuratamente di ingabbiarla in una sola definizione. Lo scrittore e saggista, in Roma è una bugia (Laterza, 114 pagine, 12 euro), manifesta un innamoramento perplesso. Parla dell’Urbe e dei «suoi tramonti drammatici». La sua grande bellezza, per usare il titolo dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, si unisce alla «sua svogliata, un po’ carognesca tolleranza, per la saggezza menefreghista dei suoi abitanti, per la sua estroversione cialtrona». Una città che «vi sfinisce, vi sfibra, ma segretamente vi carica… vive addormentata nei suoi ritmi levantini e nelle sabbie mobili delle sue pause interminabili…vi smorza e vi spegne, però al tempo stesso – misteriosamente – vi inocula una energia eccitata, inesauribile». Quanto è differente da Milano (continuamente, ed erroneamente chiamata la capitale morale: ma questo è un nostro inciso), di «febbrile bruttezza» come scriveva Giorgio Manganelli, con «quella funzionalità frettolosa e sgarbata» e con quella «mancanza di colori… pensata per il bianco e nero… proiettata sempre e solo in seconda visione». Secondo Mario Soldati la capitale autentica dell’Italia «simula un’eternità che non esiste». La Porta, elegante e arguto nello scovare riferimenti e citazioni, ricorda che lo scrittore piemontese osservava che Roma comunica il senso dell’eterno «che è poi solo il senso del nulla». Ennio Flaiano diceva che vivere a Roma significa perdere la vita. Aveva ragione, annota La Porta, perché «vivere è soprattutto perdersi. A Roma si vive all’aperto in quanto è essenzialmente un palcoscenico, dove ognuno viene assolto da ogni peccato». Roma «accoglie, dà ospitalità, non giudica, ti offre sempre una complicità, possiede un’infinita, saggia tolleranza».
La camera chiusa – Morte del genere poliziesco? Se ne discute da anni, salvo poi constatare che i romanzi polizieschi, almeno quelli scritti bene, hanno successo, in quanto – come dicevano Borges e Sciascia – sono contenitori dell’esistere, di problemi sociali e personali. Eppure pochi conoscono Gaston Leroux (1868-1927), anche se hanno nelle orecchie due dei suoi titoli più famosi: La camera gialla e Il fantasma dell’opera. L’editore Castelvecchi propone ora Le avventure di Rouletabille (661 pagine, 22 euro). Rouletabille (letteralmente, in francese, “butta la tua palla”), è un giovane reporter-investigatore estremamente intuitivo. L’atroce fatto in questione sul quale Rouletabille indaga si svolge nella campagna dell’Ile de France, più esattamente nel padiglione poco distante da un castello medievale. Mistero, indagini che portano a un rompicapo, ma anche descrizione di atmosfere, o tipicamente rurali oppure scenari degli scintillanti primi anni parigini di inizio Novecento. In questo padiglione lavora il professor Stangerson, scienziato, che è tornato in madrepatria dopo polemiche e controversie esplose negli Stati Uniti. Abitano con lui la figlia trentenne Mathilde, sua aiutante, e l’anziano “compare” Jacques, tuttofare.
Verso la mezzanotte i due uomini odono provenire dalla camera di Mathilde, chiusa dall’esterno e con finestra dotata di inferriate, un gran trambusto e grida strazianti: «Assassino! Papà, aiutami!», un trambusto di mobili e due spari di rivoltella. Lo scienziato riesce a fatica ad abbattere la porta e trova la figlia riversa a terra col capo sanguinante. Sulla parete tracce ematiche: la parziale impronta di una mano robusta. Mathilde si salverà? Forse. Ma il rebus criminoso è di ardua soluzione: come è riuscito a fuggire, senza essere visto, l’aggressore? Per deduzione si viene a sapere che i due spari provengono dalla rivoltella di Mathilde. Colui (o colei?) che ha tentato l’assalto è stato quindi ferito alla mano (il secondo proiettile si è conficcato sul muro). Ma come ha fatto «il bruto con le scarpe sporche» a svignarsela dal padiglione visto che tutte le stanze sono protette da robustissime inferriate? Rouletabille esamina tutte le ipotesi e nel contempo viene a conoscenza di strane leggende medievali della regione, tutte ispirate a streghe, fantasmi e sgozzatori. Un ampio resoconto giornalistico costruisce un ponte invisibile, e suggestionabile, tra le diavolerie d’un tempo e la disgrazia capitata a Mathilde. La camera gialla continua in altri capitoli, aggiungendo personaggi, losche figure, formando così un labirinto enormemente lungo. La raccolta dedicata a Rouletabille ha la prefazione di Jean Cocteau, che scrive: «Sotto l’ombrello di Fantomas certi autori considerati minori devono essere amati senza riserve».