Non toccate i santi
Il rito della devozione
A Salerno la tradizionale processione per il patrono San Matteo ha rischiato di degenerare, tra proteste e rappresaglie: la Curia voleva dettare le regole della devozione
Ploegsteert, Fiandre, 24 dicembre 1914. Sul bordo delle trincee tedesche brillano piccolissimi alberi di Natale illuminati da formicolanti luminarie. Nella notte di guerra si eleva un canto: «Stille Nacht, Heilige Nacht». Dagli inglesi arriva la replica: «The First Nowell». Si va avanti con schermaglie di note fino all’emozionante «Adeste Fideles» intonato in coro, due eserciti contrapposti che si accordano spontaneamente e inaspettatamente; le armi deposte, danno vita ad uno straordinario festeggiamento. Inizia così, con questa piccola, grande storia, fermata nella lettera inviata ai familiari dal fuciliere Grahsm Williams, l’ultimo libro dell’antropologo Paolo Apolito Ritmi di festa. Corpo, danza, socialità (Il Mulino, pagine 268, 18 euro): una ricerca sul senso vero della festa, accurata, attraversata da esempi storici e letterari, da testimonianze, spesso sorprendenti e apparentemente senza logica. Come i frammenti di socialità festiva nei lager e nei gulag, la gioia di un momento tra i correnti strati di malinconia, dolore e angoscia. Come l’euforia che travolge, pronta a dissolversi come nube al sole, perfetti sconosciuti; che spinge a salti, baci e lacrime persone ostili, fugando per un attimo antipatie e inimicizie.
È una forza magnetica, un trascinamento, un impulso irrefrenabile ad aderire all’altro. Perché, spiega Apolito (nella foto qui accanto), gli uomini sono animali festanti e vivere è solo questione di ritmo. Ecco allora le “comunità ritmiche”, lo stare insieme “a passo di danza”, sia pure in maniera occasionale: un concetto che non nega quelli di identità e appartenenza, ma che ben si sposa con le sfide che attendono la società globalizzata, interconnessa come mai prima di oggi e, come mai prima di oggi, densa di separazioni politiche, economiche, culturali, religiose, sessuali. Soprattutto sola. Alle community virtuali con i loro sterili, solitari dibattiti, alle tribù invisibili della rete, opponiamo, allora, la riscoperta e la centralità del corpo. «Negli esseri umani la musicalità è una dote innata. Siamo corpi – scrive l’antropologo – e in sopraggiunta siamo corpi musicali. Ed entriamo in ritmi condivisi, ci catturiamo reciprocamente in entrainment. E avvertiamo sentimenti specifici per questo. E in certi momenti e certe situazioni intensifichiamo la musicalità delle relazioni e i sentimenti e le emozioni correlate». La vittoria della Nazionale, i concerti rock, i rave, la Liberazione sulle ali dello swing, Obama presidente degli States, piazza Tahir, i rituali devoti: l“io” crolla, sostituito dal “noi” nel contagio di un’effervescenza emotiva, nel fluire di emozioni alimentate dall’entusiasmo collettivo, dal piacere dei corpi che si toccano, da quella che Marguerite Yourcenar chiamava «la gioiosa promiscuità con la folla».
L’inconciliabile conciliato. Eppure suona tanto di utopia il libro del salernitano Apolito, pubblicato alla vigilia del “giorno del santo”, l’Evangelista Matteo che dal 954 è protettore di Salerno. La festa del patrono è degenerata in follia, la pietà popolare si è trasformata in rivolta, “granata” come le vesti dei portatori che da secoli, di padre in figlio, si tramandano l’onore di “servire” l’apostolo che, secondo le cronache locali, salvò il borgo marinaro dalla flotta saracena di Barbarossa, scatenando una terribile tempesta. Le navi affondarono mentre nel cielo apparve Matteo con la scritta «Salerno è mia, io la difendo». La stessa che compare nello stemma del Comune, a rafforzare il rapporto privilegiato tra la popolazione e il santo. 21 settembre 2014: un anno triste per la tradizionale processione, un muto accordo tra le componenti, religiosa e civile, spezzato, forse compromesso per sempre. Il corteo sacro dirottato, le statue dei santi poggiate a terra, prima dalla stessa curia, poi per ripicca dai portatori, l’arcivescovo fischiato e insultato dalla folla, il rifiuto del segno della croce alla benedizione finale, l’annullamento dei fuochi poi sparati per protesta, le denunce e gli arresti. Il peggio evitato dall’intervento diplomatico del questore Ansalone. Dietro le quinte, la rottura e il braccio di ferro tra due primedonne: il primate, monsignor Luigi Moretti, e il sindaco Vincenzo De Luca.
Il bilancio è amaro: una città, considerata fino a ieri isola felice in Campania, è assurta, nell’immaginario di tutta Italia, a luogo di camorra, associata ai casi più eclatanti della Madonna della Neve di Torre Annunziata e di Parete in provincia di Caserta quando le processioni furono “blindate” con il divieto di sosta dei simulacri per evitare “inchini” ai boss. Provvedimenti, questi, presi in ossequio alle indicazioni della Conferenza episcopale campana sancite nel documento del 2013 “Evangelizzare la pietà popolare” che contiene una serie di norme per mettere fine a fenomeni contrari alla fede, per porre un freno agli eccessi di natura profana. Assurdo quest’imbavagliare la tradizione, il sentimento, la generosità di Chi è devoto, così come titola il bellissimo volume delle Edizioni scientifiche italiane (1974) sulle feste popolari in Campania fotografate da Mimmo Jodice, testi di Roberto De Simone, prefazione di Carlo Levi. «Le facce dei fuienti, le loro crisi, la sfrenata orgia dei tamburelli e delle danze – sottolinea l’etnomusicologo – la drammatica tensione muscolare e facciale dei cantatori di tammurriate, i sospiri e l’emotività delle donne in preghiera unica, tutto denuncia una carica di angoscia, di insoddisfazione, di miseria secolare tesa ad abbandonarsi nel momento della festa, quasi a voler lasciare la propria identità, ad annullarsi in una comunità esprimente una somma di dolori quotidiani… Indicano innanzitutto che la festa popolare è un momento reale del popolo e non evasivo. Che la realtà non viene mai mistificata o abbandonata e che la stessa espressione corale è perciò la somma degli individui con la loro storia, i propri drammi, la propria cultura». Altro che folklore, inchini alla camorra, blasfemia e paganesimo. È un momento collettivo che nasce come necessità rassicurativa, un modello preesistente come base di un linguaggio comune con il quale si è in grado di comunicare la propria realtà. È un “bene immateriale”, un patrimonio da salvaguardare avverte l’Unesco che ha adottato il “campanile” devoto di riti ancestrali e genuini come la Madonna dell’Arco, i Gigli di Nola, la Madonna delle Galline di Pagani, i misteri pasquali di Procida e Guardia Sanframondi per fare solo qualche esempio.
Torniamo a Salerno, a questa processione semplice ma sentita, senza eccessi e orpelli, con la banda che ritma marcette per accompagnare il passo oscillante, quasi danzante delle paranze, le giravolte e le fermate in luoghi-testimonianza come l’affaccio al mare, pericolo sempre alle porte per una città di mare, la sede della Guardia di Finanza che ha il gabelliere Matteo come protettore, il Comune, come simbolo di buon governo. Moretti vieta le “benedizioni” e le soste: «sbavature rispetto al valore di fede». Invoca la sobrietà. Il popolo, però, si sente tradito, non ci sta, si riappropria del suo San Matteo, contesta l’arcivescovo che viene da Roma e che non si è mai inserito nella dimensione locale, bacchetta il parroco della cattedrale, don Antonio Quaranta, che lo mal consiglia. Certo il comportamento oltraggioso nei confronti dell’alto prelato è assolutamente da condannare. Occorre, comunque, una riflessione. Giuseppe Acocella, docente di Filosofia del diritto all’Università di Salerno, coglie nel segno. «Il 21 settembre – spiega – è stato da sempre l’evento nel quale confluivano tre componenti cittadine che riuscivano a trovare il loro punto di equilibrio ed unità nell’omaggio al santo: il cerchio interno, più piccolo e più intenso, costituito dalla comunità di fede; il secondo, più ampio, nel quale forti sentimenti di religiosità popolare convivevano con la partecipazione delle famiglie; il terzo, ancora più numeroso, legato alla festa civile, allo spettacolo dei virtuosismi delle paranze e a quello pirotecnico». L’equilibrio si è rotto, si è mutato in conflitto. Potremmo giocare come hanno fatto i media nazionali sulla rivalità dai nostrani Peppone e don Camillo… sarebbe riduttivo. Rileggiamo Apolito. Nel suo “Ritmi di festa” evidenzia la figura del performer, l’accordatore, quello che stabilisce la “liturgia” dell’evento, che deve essere il motore dell’armonia, del “fare la società festeggiando”. In questo caso i performer, nel loro narcisismo e protagonismo, nel loro voler attirare consensi sul “Venite da me”, nella loro meschina sfida, nella celebrazione del loro potere, sono stati la causa dei disordini. Le conclusioni affidiamole all’antropologo Marino Niola: «Non è mai la comunità a fare festa, ma è la festa a fare comunità». Facciamole nostre come monito.
Nelle foto (di Tanopress) alcuni momenti della contestata processione salernitana del 21 settembre scorso