Quando l’arte cade dalla Terrazza
Quattro studiosi, Laura Barreca, Andrea Lissoni, Luca Lo Pinto e Costanza Paissan, hanno tracciato nel saggio “Terrazza" il ritratto dell'arte italiana degli Anni Zero. Con molte pretese e troppi vuoti di memoria
Si può sventolare come biglietto di presentazione di un saggio a più mani sui territori fluttuanti dell’arte di oggi in Italia il titolo: «La terrazza»? Evocando un luogo simbolico, quello delle terrazze romane dove piccoli gruppi di intellettuali noiosi e annoiati, come il Jep Gambardella di Sorrentino, si ergevano a custodi e promotori del gusto e della cultura, stilando classifiche, imponendo gerarchie? Un rituale da Prima Repubblica, che le trasformazioni, le disattenzioni, l’ignoranza sbandierata della classe politica, la crisi, il vento della globalizzazione, la dispersione delle intelligenze creative e persino i meccanismi di mercato, traslocati in altri recinti molto più esclusivi, hanno relegato a reperto di modernariato?
Non si dovrebbe, ma i quattro autori della ricerca, di Laura Barreca, Andrea Lissoni, Luca Lo Pinto e Costanza Paissan, quattro giovani curatori in carriera, ingaggiati dalla Quadriennale e dall’Associazione Civita, lo hanno fatto, scegliendo come postazione e nome di battesimo del loro saggio, pubblicato da Marsilio, proprio la terrazza. Una postazione – spiegano in un prologo a più voci, tradotto in un confuso balbettio di riserve e intenzioni – dalla quale fosse possibile affacciarsi sulla folla semi-anonima e in perenne movimento degli autori e aspiranti autori made in Italy e da lì, con il dovuto distacco, valutare le loro ambizioni e la concretezza del loro talento. Una falsa partenza che condanna l’impresa al naufragio. Anche se hanno cercato poi di cambiare il tiro, aggiungendo al saggio un sottotitolo meno pretenzioso, da esperimento, taccuino d’appunti: «Artisti, storie e luoghi in Italia negli Anni Zero». Correzione che ha un solo vero effetto positivo: quel riferimento «Anni Zero», che se non altro rimuove un trionfalistico malinteso fonte di tanti danni, quell’orizzonte futuribile da Terzo Millennio che in tanti hanno affibbiato all’arte del dopo Novecento, imponendo agli interpreti del contemporaneo un compito da fantascienza cui non erano preparati e alla critica il dovere di rottamare voci e linguaggi poco in linea con il nuovo che avrebbe dovuto avanzare.
Di novità, a dire il vero, quest’inizio di Terzo Millennio ne ha portate più d’una. Alcune positive, come il boom delle riviste specializzate, della free press, dei siti internet. O come la nascita di fondazioni, la scesa in campo di collezionisti che ha colmato in parte l’impasse del pubblico, imponendo però talvolta derive insidiose al mercato. La maggioranza delle altre novità disastrose, come la crisi economica, che ha tolto alla truppa degli aspiranti nuovi maestri respiro e certezze. O la scomparsa dell’illusione del ruolo propulsivo dei tanti, troppi musei del contemporaneo, fioriti un po’ ovunque in tante città, con l’ingresso negli anni Duemila, senza che nessuno si preoccupasse di riflettere sui costi di macchine così complesse, sui criteri per gestirli, sulla formazione e selezione di chi avrebbe dovuto farlo, degli obiettivi che gli enti pubblici di riferimento dovevano assegnar loro. Esemplare la crisi in cui da tempo si dibatte il Macro, costola dal Comune di Roma, rimasto senza direzione e senza fondi. Quella che ha obbligato il Madre di Napoli a ridimensionare le sue ambizioni di navigare nel circuito internazionale di serie A, restituire al mittente le opere prestate per la sua collezione permanente.
Di questo ridimensionamento dei musei civici i quattro autori del saggio non possono che prendere atto, registrandone il nome nella lista dei luoghi chiave per l’arte degli Anni Zero che hanno compilato. Un taccuino d’appunti che sa di poco aggiornato, affianca iniziative e centri già morti ad altri ancora attivi, non esprime se non in rari casi giudizi. E non sente neppure il bisogno di mettere in gerarchia quei nomi, imporsi un ordine alfabetico per rendere consultabile quella lista che mescola luoghi, scuole, occasioni, punti di ritrovo. Consentire a chi la sfoglia di lamentare dimenticanze e omissioni.
E molte sono carenze vistose: rare e malmotivate le citazioni riservate all’arte di strada, ai luoghi della cultura antagonista, ai centri sociali, tra i più impegnati a tener viva la fiamma. Un esempio che grida vendetta è l’esclusione del Maam (nella foto accanto e vicino al titolo), museo dell’altro e dell’altrove sulla Prenestina, epicentro tra i più stimolanti di voci fuori dal coro. L’aver ignorato la presenza attiva di Garage zero al Tuscolano, il primo a cavalcare la passione per i fumetti e l’arte da strada, che ora fa moda, e comunque è una buona base di partenza per ampliare il pubblico e i confini di pertinenza del contemporaneo.
Succede, specie se si osserva il caos dall’alto di una terrazza e con l’occhio di parte di chi su quel ruolo di distaccato voyeur sta costruendo la propria carriera e non vuole scontentare nessuno. L’unico sentiero in cui i nostri quattro critici si sbilanciano è la corposa appendice finale. Un’antologia di sessanta artisti, arricchita da una breve documentazione delle loro opere, che se non altro dà al saggio un minimo di concretezza, rende corposi, tangibili i percorsi degli autori, considerati degni di rappresentare gli anni zero che siamo vivendo. Inutile fare il gioco della torre: mancano anche qui nomi, esperienze. E i critici che hanno operato queste scelte lanciano il sasso ma ritirano la mano. Cavalcano come un alibi la commistione di linguaggi, i transiti degli autori da vari ambiti, e la loro posizione di arbitri troppo ravvicinata – ci vorrebbero almeno tre generazion, confessano – per giudicare senza abbagli. Fischiare punizioni, rigori, accreditare goal che la moviola del tempo potrebbe sconfessare.
Ma tutti convergono senza dubbi su una comune definizione di campo, la elezione dell’arte concettuale a misura preferenziale di una creatività più aggiornata, all’altezza dei tempi. L’attenzione per il percorso di elaborazione mentale che sovrasta il senso dell’opera, la scomparsa del mistero e della diversità come logica conseguenza della rinuncia all’impegno di una generazione poco incline a misurarsi con la Storia, persino quella dell’arte. Siamo davvero sicuri che sia questa la ricetta per trascinarci fuori della palude degli Anni Zero?