Meridione dimenticato
L’Arcadia di Accadia
Visita guidata al "Rione Fossi”, propaggine fantasma di Accadia nel cuore dei monti Dauni. Una città di case nella roccia e grotte preistoriche abbandonate nel 1930
Percorrendo la provinciale 101, incontrata immediatamente all’uscita di Candela dell’autostrada A16, si ha per diversi chilometri la sensazione di essere soli-veramente-soli e che bisognerà aspettare di arrivare alla meta per soddisfare qualunque bisogno. Invece, all’improvviso, in mezzo alla deserta campagna punteggiata di olivi e pale eoliche, spunta una stazione di servizio. Nell’area ci sono un paio di auto parcheggiate, un tir anche se è domenica e alcuni attempati ciclisti amatoriali in pausa di riflessione. Ma la sorpresa è dentro il locale, che non si chiama “La buona sosta” o “da Pinuccia”, ma Piper. Un paravento separa la zona bar da un’ampia, elegante sala ristorante, sicuramente usata per cerimonie importanti, e tutte le pareti sono abbellite da ritratti in bianco e nero di Patty Pravo (naturalmente), Battisti, Mina, Marylin e Jimi Hendrix. Apprezzo – stupita – lo stile, il caffé e i bagni impeccabili e riparto sotto la protezione di questi numi tutelari.
Pochi chilometri ancora e arrivo ad Accadia, che è un piccolo comune a circa 600 metri nel mezzo dei Monti Dauni, in provincia di Foggia ma più vicino ad Avellino. Oggi c’è un convegno, che sotto il titolo Le idee per Accadia, riunisce l’Associazione “Borghi Autentici d’Italia”, l’università Suor Orsola Benincasa, un premio ai due migliori maturati del locale liceo scientifico e tante voci che ragionano sulla valorizzazione del territorio.
Il convegno si tiene nelle sale del Museo Civico, dove trovo mescolatamente esposti reperti di epoca romana, medievale e contadina: ieratiche statue di santi che sembrano totem e il banchetto di lavoro di un calzolaio del secolo scorso; il cippo funerario delle osse di Congetta Rosanna (sic) e un torchio arrugginito, pietre millenarie e due macchine per scrivere. Ma non è questo che m’interessa, e neppure il dibattito, ho una sola cosa, in testa: vedere il Rione Fossi.
Il Rione Fossi è la parte più estrema dell’abitato, posto alla fine del corso principale, ai piedi dell’imponente Torre dell’Orologio, che è il monumento-icona che ho già visto su internet. A guardarlo sulla piantina presa alla Proloco, fa pensare alla testa di un uccello in volo; guardare il panorama in cui è immerso suggerisce che tra queste morbide colline e ciuffi d’alberi alberghi un genius loci. Ma il Rione Fossi, il più antico insediamento urbano di Accadia, con case scavate nella roccia e in grotte preistoriche, è un quartiere fantasma, abbandonato dopo uno dei tanti terremoti che hanno colpito la zona, quello del 1930.
Ed è un posto immediatamente fascinoso, contraddittorio, arioso e magico, che giro in completa solitudine (sono tutti al convegno), stupendomi per la bellezza del sito e per l’alternanza di edifici ristrutturati e diroccati. Da un lato ammiro una lunga, panoramica strada selciata, con bei lampioni e bassi edifici in pietra chiara, facciate ordinate e sottili ringhiere nere. Le case sono state ristrutturate, hanno solide imposte in legno scuro, i solai resi sicuri da travi in ferro, la cassetta dell’Enel. Dall’altro trovo soffitti caduti, crepe nei muri o pareti diroccate, finestre senza imposte e archi sventrati da cespugli. Qui è tutto un ammasso di pietre rotolate, di infissi divelti e consumati dalla pioggia, montagnole di irriconoscibili detriti.
Quest’alternanza di situazioni mi provoca sbigottimento e rammarico, ma non disagio, e neppure paura. Penso alla vita che c’è stata e che poi s’è fermata, per trasferirsi altrove, poco più su, in un posto meno bello. Penso alla vita che qui potrebbe tornare, non mi stupirei se ora questo silenzio si riempisse di voci e rincorse di bambini, del tocco di mezzogiorno delle campane, della sigla del telegiornale. E penso, naturalmente, ai convegnisti, alle loro “idee per Accadia” e a quanto sarebbe stato bello tenerlo qui, il convegno, nella bellezza riparata a metà del Rione Fossi, che attende ancora la sua destinazione d’uso.
Ritornando in paese mi scopro malinconica. Evito la ressa dell’invitante aperitivo offerto in piazza ai convegnisti e quasi scappo. Mi fermo al Piper, come a un posto acquisito, per un panino e un succo. Le facce di Patty Pravo e degli altri santini mi sorridono.