Viaggio in Turchia/1
I tulipani di Istanbul
Lo scrittore napoletano ci racconta le emozioni, le lentezze, le passioni e il chai; camminando sulla cerniera di terre, mare e culture che unisce l'Europa all'Asia
Si cammina, a Istanbul, lungo la Istikall Caddesi, con il ricordo fresco e colorato del fiume di tulipani che dall’aeroporto fin quasi al ponte di Galata ha salutato l’arrivo in città. Si pensa di solito che i tulipani siano un fiore olandese, e invece, quando ad aprile arriva la festa a loro dedicata, è un tale tripudio che non si ha nessun dubbio su quale paese abbia la primazia.
D’altronde anche il bicchierino usato per il chai ha forma di tulipano e da quando si arriva a quando si parte lo si terra tra le mani innumerevoli volte, perché qui bere il the seduti a un angolo della strada è un rito che dà un ritmo ipnotico alle giornate.
Il chai te lo servono così caldo che bisogna stare attenti a non scottarsi le dita. Ma presto ci si abitua e se qualcuno non è pronto ad offrirtelo, te lo offri da solo.
Istikall Caddesi è la strada principale di Beyoglu; è qui che si aprono i grandi negozi, ed è qui che ci sono i bei palazzi europei, così belli da far gola agli speculatori che già li vedono trasformati in grandi magazzini. Ad alcuni è già toccata questa triste sorte; per altri il processo è in corso, e consiste in uno svuotamento radicale: solo la facciata principale viene graziata, tutto il resto va giù e diventa polvere. E sulla polvere verranno gettate quintalate di cemento armato, e gli architetti d’interni si sbizzarriranno in scale mobili e grandi vetrate e quant’altro.
È così dappertutto, ma a Istanbul vedere in atto questi processi di omologazione architettonica fa più male che altrove. Perché basta poco per affezionarsi a una città come questa, crocevia di civiltà, stratificata anche nel modo di chiamarla, al punto tale che sotto l’attuale nome risuonano ancora quelli di Costantinopoli e di Bisanzio. Già solo dire Istanbul, e decidere dove deve cadere l’accento, dà le vertigini.
Se la percorri tutta, facendo in modo da non farti investire dal tram rosso che sferraglia al centro della strada, Istikall Caddesi ti porta fin quasi alla torre di Galata. E se sei arrivato lì vuol dire che ti sei lasciato alle spalle il capolinea della funicolare e che sei sceso per una strada in ripida pendenza piena zeppa di strumenti musicali che occhieggiano dalle vetrine, per intenderci una sorta di via San Sebastiano napoletana.
Alla torre di Galata ci si ferma per l’ennesimo chai e si cerca di chiarirsi le idee. Stando seduto su una minuscola sediolina è un esercizio utile osservare il modo di camminare dei passanti. Per quanto si tratti di una megalopoli che supera di molto i dieci milioni di abitanti, chi si avventura per le strade lo fa lentamente, come se non avesse qualcosa di preciso da fare, nessun appuntamento da onorare. È come per il chai: bisogna berlo lentamente, aspettando che si raffreddi un po’.
È solo un’annotazione visiva, difficile da supportare con dati di fatto; vale dunque quel che vale. Ma a me serve ad orientarmi. Per venire sin qui ho attraversato la famosa piazza Taksim, il luogo che abbiamo visto in tanti telegiornali. Più che una vera piazza è un luogo smisuratamente grande e vuoto. Una camionetta della polizia staziona al centro di questo vuoto per buona parte della giornata, mentre le persone tracciano le loro traiettorie con i loro corpi camminanti.
Dalla piazza passano i turisti, gli autoctoni, gli operai che stanno mettendone a posto una parte, i venditori di castagne e di fiori, gli studenti…; i poliziotti li tengono sotto controllo di sguardo. E vien da chiedersi come una città potente come Istanbul possa sopportare un regime politico restrittivo e violento. Qui le razze e le religioni si mescolano da sempre, e si mescola la geografia.
Già, la geografia. Il primo esercizio che la città ti chiede quando arrivi è di capire dove sia collocato il Corno d’oro, quale sia la parte europea del Bosforo e quale quella asiatica, cosa unisca quel ponte slanciato laggiù.
Ora che siamo sul ponte di Galata possiamo interrogare tutto ciò con gli occhi, e possiamo goderci i pescatori che appoggiano le loro canne sulle balaustre e fare un piccolo sussulto di stupore quando l’iridescenza di un pesce guizza nell’aria, tirato su dalla sapienza di chi regge la canna. Basta scendere sotto il ponte e qualcuno di questi pesci tra poco sarà pronto per finire dentro un gran panino.
Il viavai delle imbarcazioni è costante, e quante ce ne sono e tutte piene sia di turisti sia di pendolari. È di là l’Asia, aguzza gli occhi, di là, se sei svelto puoi imbarcarti subito e raggiungerla in pochi minuti, mettere i tuoi piedi nel regno del lontano, verso il mar Nero su su fino alla Russia.
O tornare indietro e perderti a guardare i pesci esposti al mercato, e di tanto in tanto alzare gli occhi fino alla punta di uno dei minareti che nella distanza segnala le moschee. Dove entrerai togliendoti le scarpe; dovresti anche lavarti i piedi, ma lo fanno soprattutto gli autoctoni. E una volta entrato sentirai sotto le piante la consistenza dei tappeti e ti verrà voglia di stenderti e cercherai di capire perché non ti riesce ad emozionarti davvero.
1. continua