Lettera dall'America
La guerra di Obama
Il presidente Usa è stato costretto a contraddire la sua politica "contro le guerre convenzionali”. Colpa delle nefandezze degli islamici radicali. Ma anche delle pressioni interne
Alla fine Obama sarà costretto a fare la guerra. Lui che aveva adottato come cavallo di battaglia quello di ritirare le truppe americane da tutti i fronti di conflitto aperti nel mondo. Lui che aveva criticato il suo predecessore George W. Bush proprio per avere condotto una guerra che non era necessaria e che si era dichiarato in generale contro ogni conflitto, dovrà invece sferrare un attacco aereo che a dispetto di tutte le affermazioni precedenti sarà forse l’inizio di una vera e propria guerra convenzionale. La contrarietà di Obama a dare l’annuncio dei raid aerei in Medioriente è esemplificata dall’editorialista del Chicago Tribune, Clarence Page, attraverso un’immagine che si può davvero definire forte e suggestiva. Scrive il giornalista: «Quando ha offerto la soluzione alla crisi causata dall’Isis, Obama mi ha ricordato il Michael Corleone de Il Padrino. Ricordate la famosa frase “quando credevo di esserne finalmente fuori – sospirava il giovane figlio del capo mafia il quale aveva concentrato tutti i suoi sforzi per lasciare il business familiare – loro mi hanno tirato dentro”? Ecco, ho visto la stessa riluttanza di Obama nel discorso televisivo di mercoledì quando ha spiegato la strategia da implementare contro l’Isis. Eletto con la promessa di far uscire gli Stati Uniti da due guerre, Obama infatti adesso nutre davvero poco interesse ad iniziarne una nuova. Mentre parlava come un falco il presidente poteva a fatica nascondere l’emergere della colomba che in realtà alberga dentro di lui».
La guerra dunque, secondo il giornalista di Chicago, riesce alla fine a corrompere anche coloro che per ovvi motivi politici e morali se ne vogliono tenere fuori, trascinandoli dentro un baratro senza ritorno, proprio come il giovane Corleone che fino a quel momento non ne aveva voluto sapere dei loschi affari di famiglia. E l’editorialista continua facendo una considerazione profonda e amara allo stesso tempo che tuttavia depone a favore della riluttanza di Obama. Un po’ meno a favore degli americani. Infatti, nota il giornalista, proprio per evitare ulteriori massacri in un Medioriente martoriato che solo in Siria registra più di 200.000 civili morti negli ultimi tre anni, il presidente forte dell’assenso del popolo americano non era voluto entrare in guerra. Ma adesso dopo la diffusione del video della decapitazione dei due giornalisti statunitensi, il popolo americano è favorevole a una guerra e accusa Obama di non essere abbastanza deciso e forte. Come se solo quelle due vite facessero la differenza! Ma il presidente continua a non volere entrare in guerra in contrasto con gli alti gradi militari e cerca alleati tra le potenze europee tra i paesi arabi moderati.
Tutta la stampa americana dal Chicago Tribune al Washington Post al Los Angeles Times per finire al New York Times oltre alla riluttanza del presidente americano a entrare in guerra evidenzia il dissidio tra di lui e il generale Martin Dempsey che invece ritiene che sia impossibile sconfiggere l’Isis senza un dispiegamento di forze sul territorio. Cioè senza una guerra convenzionale. «Se arriviamo al punto in cui credo che i nostri consiglieri debbano guidare le truppe irachene negli attacchi contro l’Isis lo farò presente al presidente. E già immagino che ci saranno circostanze in cui penso che questo sia necessario. Ma ancora non siamo a quel punto». Dunque ci vorranno anche quei “boots on the ground’ che Obama solo pochi giorni fa ha di nuovo smentito in un discorso alle truppe a Tampa in Florida.
Che cosa sta succedendo? Che cosa è cambiato dalle intenzioni iniziali di un presidente che ha trovato un’opposizione dura come nessun altro su tutte le proposte che ha presentato e che ha fatto della guerra alla guerra un tratto fondamentale di ambedue le sue campagne elettorali? Cosa distingue il punto di vista del presidente da quello del generale? Il primo, portando un’offensiva militare in una regione che l’America aveva sperato di abbandonare ha tutte le ragioni di sottolineare i limiti del suo impegno. Così dopo avere annunciato che il suo obiettivo è quello di «diffamare e alla fine distruggere l’Isis» ha inoltre stabilito molto chiaramente un limite a quello che è intenzionato ad investire in questa missione. Il che in parte è un obiettivo politico, ma costituisce anche una riflessione sulla sua paura di scivolare nella china pericolosa di un’escalation militare. Non ci dimentichiamo che Obama ambirebbe giustamente a essere ricordato come il presidente che porta a conclusione le guerre non che le inizia. E anche il segretario di Stato Kerry lo scorso lunedì ha confermato che sconfiggere l’Isis dipenderà soprattutto da iniziative di non combattimento come lo screditare la sua ideologia, fermare il flusso di jihadisti volontari verso l’Iraq e provvedere il supporto politico e materiale al nuovo governo iracheno. Obiettivo raggiungibile soprattutto alla luce della promessa dell’Arabia Saudita di addestrare migliaia di combattenti del Free Syrian Army, che inoltre è anche il grande nemico di Assad. E sul presidente siriano e sul giovamento che potrebbe trarre da una possibile guerra all’Isis ci sarebbero molte riflessioni da fare. Se sia possibile sconfiggere l’Isis solo con le forze irachene e siriane resta ancora da vedere. Infatti l’esercito iracheno ha bisogno di riorganizzarsi e di un nuovo addestramento supportato da riforme politiche del governo di Baghdad prima di essere capace di riconquistare città come Fallujah e Mosul per il momento in mano all’esercito del terrore.
Al contrario Dempsey ha cominciato a guardare a questa missione – sconfiggere l’Isis – compiendo un lavoro inverso a quello di Obama, ossia calcolando ciò che è necessario fare al momento. Ha pertanto affermato che la sua speranza è quella di realizzare il piano A del presidente attraverso bombardamenti aerei, intelligence, equipaggiamenti, e consiglieri per aiutare le forze irachene a vincere il nemico. Ma se tutto ciò non dovesse bastare, Dempsey e tutto lo stato maggiore militare proporranno che vengano mandate truppe di terra inclusi i corpi speciali. Ma su un obiettivo la casa Bianca e i generali sono in sintonia: non hanno interesse a tenere truppe di terra in Iraq per lungo tempo. «Non vogliamo che possano diventare dipendenti dal nostro aiuto» ha affermato Dempsey. Ma se il piano A non dovese funzionare, Obama sarà costretto a chiudere il gap tra quella che può essere definita l’ambizione dei suoi obiettivi e i mezzi limitati che è disposto ad usare. Questo può portare a due vie d’uscita: o un’escalation militare di cui ha un’estrema paura per i motivi suddetti, oppure la rinuncia all’obiettivo annunciato il mese scorso: «Ridurre l’Isis al punto in cui possa diventare un problema controllabile». Ammettere che non riuscire a fermare una minaccia nei confronti di tutto l’Occidente renderebbe ancora più tracotante e oltranzista l’esercito del terrore che non si ferma di fronte a niente.
Animato com’è dalla forza del fanatismo e dall’idea di un assetto sociale retrogrado e barbaro (e chiedo scusa per l’uso inappropriato e offensivo della parola barbaro in quanto proprio grazie ai barbari si è potuto verificare lo sviluppo e il progresso della società occidentale), il nuovo stato islamico adesso ha anche il coraggio di fare appello alle donne perché si uniscano ai suoi adepti semplicemente per «fare figli e cucinare». Cioè si chiede loro di scegliere volontariamente di diventare delle schiave, private di tutti i diritti anche di quello della persona e dell’identita. E l’assurdo è che ci sono state donne che in Internet hanno plaudito ed espresso il loro entusiasmo nei confronti delle gesta più feroci dell’esercito del terrore!