Laura Novelli
A proposito de “Lo Splendore dei Supplizi”

Tra dolore e metafora

Il gruppo pugliese Fibre Parallele, partendo da Foucault, ha costruito uno spettacolo che mette in scena quattro «supplizi» prodotti non dalle coscienze, ma dalle mode più retrive

C’è senza dubbio una dose di inquietante, seppur lieve, sadismo nei quattro quadri che compongono Lo Splendore dei Supplizi, nuovo lavoro della compagnia pugliese Fibre Parallele (di cui ricordiamo i precedenti Furie de Sanghe – Emorragia cerebrale, Have I None, Duramadre) arrivata qui ad un’analisi matura dei nostri tempi scomposti e schizofrenici che, dopo aver debuttato lo scorso anno e visto al Vascello di Roma nell’ambito di Teatri di Vetro 2014, sarà nei prossimi giorni a Bari, Piacenza e Milano. Il titolo è mutuato dal saggio di Michel Foucault Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (lo pubblica Einaudi) e suona come un ossimoro un po’ diabolico dove si annidano – lo scopriamo via via che i diversi movimenti si susseguono – le galere, gli strazi, le (auto)punizioni più diffuse nella nostra società, con quel tanto di ironia che basta per disegnare un’umanità ormai incapace di umanità e relazioni interpersonali ormai svuotate di relazione.

Una coppia in crisi, un giocatore patologico di videopoker, una badante straniera alle prese con un vecchio fascista, un vegano integralista vessato da due operai disoccupati rappresentano le quattro materie drammaturgiche chiamate a raccontare i supplizi del terzo millennio e, tanto più, a sdoganare il sospetto che dentro tanto dolore ci sia sempre e comunque un disagio collettivo (oltre che personale) di base, un esaurimento di quelle nobili risorse intellettive e spirituali che hanno elevato l’uomo al di sopra delle bestie, garantendogli – con un certo margine di eccezione – progresso, benessere, codici morali, fiducia nelle istituzioni e nel prossimo. I personaggi di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo (entrambi autori, registi e interpreti, ai quali si affianca in scena Mino Decataldo) sembrano, infatti, gli epigoni di una specie vivente bizzarra e fuori misura: con leggerezza, ironia, cinismo essi si apprestano, chi più chi meno, a diventare animali famelici incatenati alle loro sciagure, ossessionati dalle loro debolezze, inferociti contro chi è diverso da sé, affamati di recriminazioni, vendette, illusioni.

Non c’è scampo per nessuno e il boia incappucciato che da fuori scena cuce i diversi momenti come fosse un demiurgo mortifero – salvo poi trasformarsi nel protagonista dell’ultimo quadro – evoca immagini di esecuzioni drammaticamente simili a quelle comparse sui nostri quotidiani nelle ultime settimane. Ma la strada narrativa scelta qui dai due autori/attori baresi non è quella della tragedia. Semmai quella di un grottesco iperrealista mosso da continui cambiamenti di tono, che fa pensare a qualcosa di Copi, agli eccessi “cibari” di Rodrigo Garcia, a un trovarobato pop di casa nostra (si veda ad esempio la colonna sonora) dove spuntano pure inflessioni dialettali e picchi di istrionismo da primo attore. Tanto più che risulta bravissimo Spagnulo nel delineare i suoi diversi personaggi, soprattutto nel duettare con il pupazzo de Il giocatore a mo’ di talentuoso ventriloquo.

Questo è sicuramente il più cupo dei quattro quadri, quello più misterioso, più criptico, complice anche un dialetto molto stretto che non sempre si apre ad una perfetta comprensione: siamo al fondo psicotico di un’ossessione per il gioco che nasconde il turpe omicidio di una madre/fantasma e il disagio di un immobilismo privo di futuro, cosicché Pasquale non può che apparirci come la vittima sacrificale di se stesso.

Nel primo movimento, La coppia, un uomo e una donna seduti su un divano bianco raccontano se stessi senza parlarsi l’un l’altra: la biografia di un amore vira verso le ovvietà di una distanza sempre più forte; le scontate minuzie del quotidiano sbriciolano un progetto di vita malato di egoismo e fragilità adolescenziali; a tratti ne ridiamo, a tratti ci ritroviamo in loro, mentre i due, incatenati come cani rabbiosi, scivolano verso l’inevitabile abbandono e finiscono in ginocchio a sbranare con vorace appetito la loro stessa torta nuziale. Ne La badante Lanera e Spagnulo giocano invece a scambiarsi i ruoli en travesti: lui è una donna rumena che assiste un vecchio italiano razzista e pruriginoso in una girandola di dispetti, cattiverie, screzi, offese che non nasconde le rispettive solitudini ma che rischia di risultare scenicamente un po’ ripetitivo e scontato. Di gran lunga migliore l’ultimo corto del polittico, Il Vegano, dove due operai senza lavoro sequestrano appunto un vegano benestante che abita nel loro stesso palazzo e lo costringono ad ingurgitare cibi animali di ogni tipo coprendolo di uova, maionese, latte, salumi, petto di pollo. Arguto manifesto semiserio contro i fanatismi di ogni genere e contro quell’integralismo alimentare che sta diventando una vera e propria ossessione – l’ennesima – dei nostri tempi ma anche, e forse più sottilmente, un raccapricciante quadro di intolleranza, odio, accanimento. Perché in fondo il peggiore supplizio del terzo millennio è proprio la perdita di comprensione pietosa di sé e degli altri. E questo sì che ci condanna alla peggiore delle galere.

La foto è di Luigi Laselva

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