Pino Forestiero
Racconti del peccato/22

Corpus Domini

Nonostante avessi lo stato di coscienza alterato per la sbornia, mi rendevo conto perfettamente dei guai in cui mi stavo cacciando. Avevo appena lasciato la mia impronta sul corpo di un cadavere

La bottiglia di Chivas Regal vuota sul comodino. Mi ero bevuto l’ultimo ricordo degli anni Ottanta. La guardavo come una vecchia casa abbandonata, e nel suo vetro scuro cercavo i segni di un’abitudine. Dalle persiane entrava una luce morbida: era il grano che profumava d’oro e d’infanzia. Gli occhi si richiudevano addormentati dentro la quiete di un corpo estraneo agli occhi stessi. Mi sentivo come dentro un modulo spaziale che sprofondava fino al centro della Terra, passando attraverso fiumi, rocce, magmi, cristalli, in un vuoto puro, assoluto.

Quella notte sarei potuto scomparire in qualche fogna, e lì, morire senza accorgermene, risucchiato da qualche troia dalla bocca molle. E quel pomeriggio d’estate, che improvvisamente diventava notte buia, sapeva di noia disperata e desiderio di morire in fretta. Mi ero ritrovato nella campagna di Isola del Liri. Guidavo il mio furgoncino che sbuffava dai braccetti scuffiati, e a ogni curva saliva uno sfrigolio di metallo, che diventava fastidioso se non la prendevo dolcemente, ed era una parola, con tutto quel whisky in corpo. Sigarette, sono qui per le sigarette. La notte non finisce se mancano. Merda; non trovi mai un distributore automatico quando serve! La notte smetto di fumare solo quando inizio a sentire il gusto bruciato della bocca che diventa malore delle ossa.

Avevo caldo in volto, tremore, voglia di whisky e sete di fumo tra i denti. Il porfido della strada del centro storico faceva vibrare il metallo dell’auto a scossoni, e procedevo a passo d’uomo, anche per quel problema meccanico così rumoroso che avrebbe attirato l’attenzione dei passanti.

Da un locale, musica dal vivo. Fuori, gente con bicchieri in mano vestiti come in un carnevale estivo. C’erano parrucche di ogni tipo e maschere zoomorfe. Mi fermai a bere qualcosa e mi sedetti in un angolo. Un tizio con una maschera da capro mi fissava. Se ne stava seduto in fondo al bancone, mentre una pioggia di luci e suoni riempiva a fiotti la sala. Sembrava che nel bar ci fossimo solo noi due: io e quest’uomo capro, con il collo piegato a guardarmi, stivali da motociclista, bermuda e una camicia a fiori; la maschera decisamente sproporzionata al suo fisico, che pure era abbastanza ben piazzato.

Andai in bagno e quando tornai l’uomo capro non c’era più. Al suo posto c’era una ragazza con il trucco che le colava sul volto, mentre dal naso le colava sangue. Avevo bevuto tanto quella sera, troppo, e allora decisi di tornarmene a casa. Uscendo dal locale diedi un ultimo sguardo alla ragazza che sembrava fissare il vuoto, o una lampada in vetro a forma di missile che le stava di fronte, dalla quale la cera scaldata creava forme sempre diverse, casuali.

Tornando a casa, mi fermai all’imbocco di una stradina che portava al fiume, feci qualche metro, sentivo la sabbia che iniziava ad entrarmi nelle scarpe, un sapore acido mi saliva alla gola, la testa mi stava scoppiando di dolore e le gambe, a stento, reggevano il corpo. Appoggiai il palmo della mano a un albero, era umido. Sentivo il polso accelerare sempre più fin quando vomitai. Proprio in quell’istante, mentre ero chino su me stesso, fui morso sull’avambraccio da uno scorpione.

Un’automobile che passava sulla strada principale mi abbagliò. Fu allora che mi accorsi d’aver vomitato sulla faccia di un uomo, il cui corpo inanime era riverso a terra e quasi completamente ricorperto di sabbia, fogliame e rami secchi. Quando feci per ritrarmi, i miei piedi sentirono il suo ventre morbido muoversi.

Nonostante avessi lo stato di coscienza alterato per la sbornia, mi rendevo conto perfettamente dei guai in cui mi stavo cacciando. Avevo appena lasciato la mia impronta sul corpo di un cadavere, e il fatto che si trovasse lì, in quelle condizioni, faceva supporre che si trattasse di un omicidio. Ora , in bella evidenza, c’era la mia firma.Una gioia per gli inquirenti, che magari l’avrebbero presa anche a ridere.

Dovevo sbarazzarmi di quel cadavere. Buttarlo al fiume. Quella fu la prima idea. No, pensai, lo avrebbero ritrovato. E poi l’acqua, per quel che ne so io, non avrebbe cancellato il vomito. Intanto che ragionavo di questo, il braccio indolenzito per il morso dello scorpione iniziava a dolermi. Per fortuna il mal di testa si era calmato.

Decisi di caricare il cadavere sul furgone, portarlo in un luogo sicuro e seppellirlo. Il giardino della mia casa di campagna sembrava una buona soluzione: lontana da occhi indiscreti e poi sotto il mio controllo.

Tornai sulla statale, presi il furgone e mi infilai in quella stradina, rischiando di rimanere insabbiato sul fondo morbido. Il motore al minimo, gli unici rumori provenievano dai cespugli e dalle canne che sbattevano sulla fiancata e sul parabrezza. Il furgoncino avanzava dondolandosi, le spighe del mais sembravano tante piccoli croci rovesciate, immobili.

Quando arrivai all’albero spensi il motore, avendo cura di posizionarmi a ridosso del cadavere. Non ci misi molto a disseppellirlo, doveva essere stato nascosto in tutta fretta, o colpito e lasciato lì, senza troppa cura.

Caricato il cadavere sul furgoncino, vidi che aveva il petto squarciato all’altezza del cuore. Me ne accorsi perché, nell’atto di afferrarlo per infilarlo nel vano del furgone, la mia mano affondò nelle membra fino a toccare le costole. Gli avevano strappato il cuore a morsi.

L’aria entrava dal finestrino, era un’aria appiccicosa. L’afa del giorno inseguiva la notte, in quella notte in cui si erano risvegliate tutte le creature della malora.

Arrivato a casa, parcheggiai il furgone a pochi passi dal fienile, dove avevo tutti gli attrezzi da lavoro. Presi una piccozza e una pala e mi incamminai verso il fiume, dove la terra era più soffice e non ci avrei messo molto a scavare la fossa.

Abitavo in una casa in legno a poche curve dalla provinciale, dove il fiume fa un’ansa, e dove, anni prima, era scoppiata una polveriera: le casematte erano saltate in aria una dopo l’altra, uccidendo sette persone. Il boato aveva fatto tremare le finestre degli edifici fino a fondovalle. Avevo comprato quel terreno in un asta e ci avevo costruito sopra. Seppellire il corpo non mi spaventava. A farmi paura era altro: il giorno, le luci degli uffici, gli sguardi dei vivi, i vuoti pieni di sole.

Quando aprii la portiera del furgone e puntai la torcia sul volto del cadavere mi avvidi di conoscerlo: era Don Alessandro, il parroco che mi aveva battezzato.

Lo seppellii in fretta, tornai in casa, mi lavai, misi gli indumenti che indossavo in una busta nera e la bruciai nel giardino, avendo cura di aspettare che tutto si fosse incenerito. Fumai un’ultima sigaretta.

L’indomani scesi in paese. Tutto era di una normalità che mi appariva straniante.

Quando arrivai nella piazza dove si svolgeva la messa del Corpus Domini, dopo la processione, vidi Don Alessandro con le mani alzate intonare un Gloria Al Padre.

Ma come; lo avevo seppellito con le mie mani! Lo guardavo, sembrava che lui mi stesse cercando tra la folla che assisteva alla messa.

Era mezzogiorno, un sole alto e forte premeva sulle tempie. Il cielo iniziava a coprirsi. Da lontano si sentivano i primi temporali. La gente correva a ripararsi sotto ai portici, dentro le case. Cadevano le prime gocce d’acqua e grandine: un chicco grande come una noce mi colpì l’avambraccio e mi ritornò il dolore del morso dello scorpione.

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pino forestieroPino Forestiero è nato a Sora (Fr) nel 1975; risiede a Balsorano (Aq) dove lavora nell’azienda di famiglia. Nel 1998 ha pubblicato la sua prima opera di poesia, Jack, si gira Edizione Tracce Pescara. Tra l’autunno del 2013 e la primavera 2014 ha frequentato un corso di narratologia a cura di Andrea Carraro.

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