Riflessioni in margine a un film
Contro l’uomo qualunque
Dopo l'uomo massa, antico fremito di ideologie scomparse, ecco s'avanza quello immobile, che rigurgita banalità e privilegi. Perché tutto resti com'è. La prova? Andate a vedere "Arance e martello" di Diego Bianchi
Un fantasma si aggira per il mondo: l’uomo qualunque. Categoria d’appartenenza che con il crollo delle ideologie, il pensionamento prematuro di Carlo Marx, ha preso il posto dell’uomo massa, capro espiatorio di ogni forma di totalitarismo, vittima di ogni profezia di rivoluzione e alienazione a venire, terra di conquista di mezzi di comunicazione, tecnologie e consumi. L’uomo massa era una proiezione da incubo: lo si immaginava in marcia, strumento d’invasione, particella di un’orda all’attacco, di una moltitudine inarrestabile, come a molti appariva – paura che sopravvive nell’immaginario collettivo ancor oggi– la Cina sempre più sovrappopolata, sempre più attrezzata, sempre più vicina. O nella rivisitazione dei film horror, il risveglio degli zombies.
L’uomo qualunque, è invece una creatura tendenzialmente immobile. Così immobile che non va neppure a votare. Se deve agitarsi, smanetta su Internet. Altrettanto irraggiungibile, forse, ma perché è ferma, così sfugge ai radar, la sua essenza ontologica è l’assenza di movimento, da cui solo saltuariamente deraglia. Generalmente aspetta, non sa bene cosa, è restia a farsi stanare: la massa frazionata e sparpagliata nell’infinita somma di individualità che l’incarna. A volte, in passato, lo ha fatto, si è agitata aderendo a una fede, un fremito di vitalità, che si è spento nella disillusione: gli uomini qualunque di questo tipo sono i peggiori, i più pericolosi, i più esposti al rancore, al voltafaccia salvifico, all’inedia nihilista. A volte lo fa, magari per brevi periodi, prima di ripiombare nell’inerzia, accendendosi per le formule semplificate, allettanti, accessibili d’un capo, o d’una fazione che riescono a dar voce ai lori malumori, a disegnare l’orizzonte di una terra promessa, meglio se a portata di mano, sottocasa, o la sagoma d’un nemico da lapidare o rottamare senza troppa fatica. Ogni riferimento alla Lega, al fenomeno Beppe Grillo, all’antipolitica, al successo di Renzi, ai tormentoni degli anti-immigrati e degli anti-Europa è voluto.
L’insulto peggiore per l’uomo qualunque, che paghi o che evada le tasse, è la morte, che su suo impulso la società evoluta di oggi ha rimosso dai propri scenari, dai propri riti. E contro la quale continua a reclamare ritorsioni e vendette. Un incidente stradale, un omicidio premeditato, un suicidio, poco importa, se lo si obbliga a partecipare chiede punizioni esemplari. Senza se, senza ma. Pene sempre più alte, fino alla pena capitale: ma sì, condanniamo a morte la morte.
L’uomo qualunque non ha attitudini particolari, per questo non si misura con la diversità, è tendenzialmente omofobo, moralista, razzista. Per questo non aspira all’epopea, alla tragedia, il suo terreno di coltura è la commedia, la farsa, meglio se sgangherata, sguaiata: generalmente se non ci si va giù troppo duri lui sa ridere dei propri difetti perché non se ne vergogna, ci scava dentro la propria tana, ne ottiene in cambio un riconoscimento d’identità. L’uomo qualunque è una categoria prepolitica o postpolitica, se si vuole. L’unico sinonimo che si può usare in sostituzione è uomo della strada, ma favorirebbe un abbaglio perché l’uomo qualunque attraversa e abita la strada o altri spazi aperti con circospezione e in assoluto anonimato. Meglio forse uomo sottocasa, visto che, almeno in Italia, è generalmente un proprietario d’immobile; e visto che dal chiuso della sua casa guarda e giudica il mondo. La sua individualità è così spiccata che per corteggiarlo o accaparrarsene il voto la politica deve declinarne il nome, sostenerne le opinioni al plurale, chiamarlo gente: star con la gente, ascoltare la gente. Mai popolo comunque: quella è espressione in disarmo, rievoca lo spettro dell’uomo massa, dei partiti di massa, dei movimenti di massa. Delle masse in genere, alle quali l’uomo qualunque ha ascritto, per liberarsene, i popoli migranti, i migranti. I cinesi e i neri che non a caso gli paiono tutti uguali, intercambiabili. Gli emigranti sono gli unici esseri di cui tollera o metabolizza con disattenzione più o meno camuffata la morte, che per se stesso considera una persecuzione, uno scandalo . Quelli che annegano affondando in mare coi barconi, si poveracci, ma peggio per loro, se la sono voluta, potevano restarsene a casa. A ogni tragedia, fateci caso l’uomo qualunque reagisce, chiedendo subito controlli, misure più restrittive per impedire o arginare gli sbarchi.
A innescare queste riflessioni sproporzionate , che potrebbero continuare all’infinito è stata la visione di un piccolo film, che probabilmente non merita tanta attenzione, portato a Venezia e ora in questa fine estate distribuito in sala, Arance e martello, opera prima di un noto blogger tv, Diego Bianchi, al secolo Zoro, inventore e conduttore di Gazebo, la politica raccontata in seconda serata con un occhio al linguaggio dei socialnetwork come si sfogliasse uno stupidario. Il senso comune rivisitato dalla satira come voragine di non senso. Insomma l’habitat dell’uomo qualunque. Nel caso di questo film il ring scelto come set è un mercato rionale, zona San Giovanni, che dovrebbe essere smantellato per far posto a un garage. Siamo in piena canicola, l’agosto torrido di 3 anni fa , come nell’Harlem anni Ottanta del film Fai la cosa giusta di Spike Lee che Zoro prende a modello. Primo vistoso errore perché i neri sballati e infuriati di quella New York prima della cura Giuliani non hanno nulla da spartire con i rivenditori cinici e sfessati di via Orvieto, decisi a difendere le loro bancarelle, perfetta incarnazione di vizi e virtù da uomini qualunque: la loro è una rabbia profonda e motivata, il movimento che hanno alle spalle ha radici di massa, sono insomma essi stessi, almeno ai nostri occhi, uomini massa.
In pieno agosto l’unico appiglio di questa ribellione in salsa romanesca è la sezione locale del Pd, che viene così coinvolta. Già, ma che fare? La soluzione viene trovata in una gabola dello statuto: il meccanismo delle primarie. E così la questione viene messa al voto, che però dà esiti incerti. Fino a questo punto la commedia, infarcita di battute con un horror vacui tutto televisivo, regge. E regge il copione. Ma la calamita del film di Spike Lee fa tracimare la trama, impazzire la maionese. La gente del mercato, spalleggiata da qualche iscritto nostalgico e da un drappello di ragazzi animosi occupa la sezione, minacciando strage di ostaggi. E la farsa scivola verso un dramma, in un grottesco, fuori scala. Interviene il sindaco cattivo, un attore che interpreta Alemanno; interviene la polizia in assetto di guerra, che si fa scudo addirittura dei versi antisessantottini di Pasolini ma picchia come fosse a Genova, intervengono persino i fascisti. Un gran casino che Diego Bianchi non sa più come sbrogliare. Ecco che succede quando entra in gioco il campionario dell’uomo qualunque sembra concludere il regista travolto dal caos. La morale è a nostro avviso diversa: ecco che succede quando un rigurgito di nostalgia per il vecchio Pci spedito in pensione, il bla bla dei personaggi qualunque chiamati in scena, evocano l’universo in via d’estinzione, la memoria del partito di massa. Ecco che succede quando il cazzeggio, le gag e le risse da serata in tv travolgono il linguaggio del cinema, la sua necessità di tradurre la cronaca in storia.
Ma forse in queste critiche, in questo mio rifiuto di complicità , si nasconde una verità: la paura di riconoscerci spettatori qualunque.