Un saggio di Instarlibri
La Cina è una parola
«Tre uomini fanno una tigre» di Nazarena Fazzari prende in prestito un chengyu, un modo di dire cinese, per spiegare che cosa ci divide da quella cultura e da quella lingua
«Tre uomini fanno una tigre» (san ren cheng hu) è un chengyu, un’espressione idiomatica composta da quattro caratteri che trae origine dalla lingua cinese classica, risalente all’Hanfeizi del III secolo a. C.: niente meglio di un chengyu poteva concentrare nella brevità di un titolo il significato del libro di Nazarena Fazzari (Tre uomini fanno una tigre, “Viaggio nella cultura e nella lingua cinese”, Instarlibri, 144 pagine, 14 euro), specchio di una nazione adagiata fra tradizione e modernità. L’autrice, che per studio e lavoro ha avuto modo di conoscere approfonditamente la lingua e la cultura cinesi grazie a esperienze numerose e varie nel Regno di Mezzo (Zhongguo, ovvero il nome della Cina in cinese), offre al lettore la possibilità di affacciarsi su un mondo ancora quasi del tutto sconosciuto alla maggior parte degli occidentali e di poterne intuire le peculiarità e le contraddizioni che lo caratterizzano.
La Fazzari ci presenta la Cina attuale – sovrappopolata e consumistica, in preda a un delirio di crescita economica esponenziale, con aziende dalla vita frenetica e incontri e scambi costanti con l’Occidente – passando inevitabilmente per la tradizione, ancora così fortemente radicata in ogni aspetto della vita del popolo. Ci racconta gli ostacoli che uno straniero necessariamente incontra alle prime esperienze in un paese così incredibilmente diverso dal proprio, a partire da una concezione del tutto peculiare del senso del pudore e del sesso, per approdare alle inevitabili incongruenze linguistiche che impediscono in molti casi una traduzione letterale e un interscambio completo tra il cinese e le altre lingue. Ci trascina in viaggio in treno (“il veicolo alimentato dal fuoco”) e sugli autobus che attraversano uno stato tanto sterminato da un capo all’altro, ci porta a immaginare la vita sociale che scorre all’interno di enormi parchi disseminati nelle varie zone di ogni città, dove gruppi di giovani e anziani non perdono occasione per fare pratica di taijichuan, ci offre una spiegazione esaustiva sul perché di tanta superstizione, il tutto espresso in una scrittura gradevole e leggera, arricchita da ironia e senso dell’umorismo. Non manca ovviamente di trasportarci tra i sapori, i colori e i profumi della cucina, elemento chiave della vita familiare, ma anche lavorativa, del cinese. E tutto questo, quando necessario, attraverso l’analisi linguistica dei termini utilizzati, a sottolineare sia il legame profondo tra la lingua e la cultura millenaria del Regno di Mezzo sia la difficoltà di comprensione di una società così singolare, senza la conoscenza della lingua che le dà espressione.
Un’opera utile e interessante per chi, alle prime armi con la lingua o semplicemente incuriosito da un paese a tal punto lontano geograficamente e culturalmente, abbia voglia di avvicinarsi a quel mondo a sé che la Cina rappresenta o per chi, prossimo alla partenza per la Cina, voglia avere un quadro di riferimento affidabile e abbastanza completo.
Per chi invece abbia avuto modo di sperimentare di persona meraviglie e contraddizioni dell’ex Impero Celeste, può essere un ottimo strumento e una gradevole lettura per poterle ricordare e rivivere nostalgicamente.