Ancora su «L'armata dei sonnambuli»
Storia delle storie
Nel nuovo romanzo del collettivo Wu Ming si avverte il gusto liberatorio di spaziare nel passato. Ma alla fine si intuisce che lì nel passato c'è anche il presente
Si può leggere un libro e tralasciare le eventuali chiavi di lettura e limitarsi alla storia in quanto tale? Fare una lettura semplice per prendere piacere da cosa si sta leggendo o si è letto? Sì, penso di sì, e lo trovo anche giusto. Così ho letto L’armata dei sonnambuli del collettivo Wu Ming (Einaudi Stile Libero Big, 796 pagine, 21 Euro, vedi pure la recensione di Succedeoggi) come un libro di pura evasione e debbo dire che ho passato molte ore, sono poco meno di 800 pagine, piacevoli e coinvolgenti. Se rammentate bene la storia della Rivoluzione francese, se ricordate chi sono i girondini o i montagnardi, se Robespierre, Brissot, Marat, Saint-Just ed altri ancora, se la Vandea, l’Alvernia non hanno segreti per voi, se Mesmer non è uno sconosciuto iniziate tranquillamente a leggere il libro altrimenti è consigliato un breve ripasso del periodo storico.
Ma la ricca storia, che si apre con Luigi XVI di Borbone, o Luigi Capeto, che viene portato al patibolo e un contemporaneo tentativo di liberazione, non gira solo intorno ai personaggi storici più famosi, che comunque ricoprono un ruolo pesante, ma intorno al popolo che appoggiò la Rivoluzione. Ruota intorno alla sarta Marie, al ciabattino-poliziotto Treignac, all’attore italiano Leo Modonnét e alla maschera di Scaramouche da lui impersonata, al dottore Orphée D’Amblanc seguace di Mesmer e la cui dottrina svolge un ruolo fondamentale nell’economia della storia. Il tutto nella perenne lotta tra aristocrazia e popolo, ricchi e poveri, nobili e plebei o rivoluzione e restaurazione. Ben costruito, verrebbe da dire come un romanzo di cappa e spada, è un susseguirsi di azioni, di incontri scontri tra personaggi che sembra non abbiano nulla da condividere. Prende e coinvolge, non annoia mai e si arriva anche con un certo rimpianto alla fine del libro. Ed è quando si giunge alle ultime pagine che molte situazioni si risolvono e si hanno diverse e ricche e belle sorprese. Interessante la struttura narrativa, e un certo linguaggio, portata avanti in atti e scene come se fosse un’opera teatrale di Goldoni che ritroviamo nelle pagine ededicate a Modonnét e alle sue riflessioni sul teatro.
Sullo sfondo delle avventure dei vari personaggi c’è l’interpretazione della storia, di una storia, che ha comunque segnato gli anni che seguirono e non solo in Francia. Il ruolo del potere, della violenza nata per arginare la passata e che genera la futura in un movimento circolare da cui non si esce. Ne viene fuori un Robespierre che “non è un dittatore personale e sanguinario, ma l’incorruttibile lettore di Rousseau, preoccupato di riuscire a controllare una violenza altrimenti molto più distruttiva, incontrollabile e caotica. La ghigliottina stessa e il suo sinistro rituale sembra rispondere a questa logica.” (Enrico Manera)
Leggetelo senza farvi condizionare dall’idea di trovare una seconda chiave di lettura come ci si attende sempre con i libri di Wu Ming. Non preoccupatevi, viene viene da sola e non potrebbe essere altrimenti perché nel libro c’è di tutto come detto prima. E c’è anche molto che non vi dirò per non togliere il gusto della scoperta. Se poi qualcuno trova che alcune situazioni potrebbero adattarsi ai nostri giorni vede bene perché stiamo parlando di un romanzo storico e la storia si ripete anche se ormai ci siamo rassegnati al fatto che non insegna.