Lettera dall'America
Il nuovo razzismo
Il giovane nero ucciso "per errore" dalla polizia in Missouri riapre il dibattito sulla discriminazione negli Usa. Che non è più quella storica, viscerale, ma ha un valore fortemente politico. Made in Tea Party...
E così ci risiamo. Un altro teenager nero e disarmato ammazzato per errore da un poliziotto bianco troppo armato e con troppo potere. Un fatto che accade spesso, specie ultimamente. È accaduto a Los Angeles lunedì scorso, è accaduto a New York giorni fa. I motivi erano diversi, ma in comune tutti avevano la caratteristica che le vittime erano giovani neri, uccisi da poliziotti bianchi. E questa volta, per svariati motivi, l’evento ha scatenato, diversamente dalle altre volte, una reazione in tutto il paese. È accaduto a Ferguson, un sobborgo di St Louis in Missouri che conta solo 21.000 abitanti. Michael Brown un diciottenne che si trovava sulla scena del crimine – un furto in un negozio di tabaccaio – ha perso la vita inutilmente. In più, il corpo ancora caldo è stato lasciato per strada più di quattro ore. L’errore dovuto ad una segnalazione che aveva caratterizzato uno dei sospetti come nero e vestito con una maglietta bianca proprio come il giovane malcapitato gli è costata la vita.
«Abbiamo perso un giovane uomo in dolorose e tragiche circostanze. Aveva 18 anni e la sua famiglia non potrà mai più stringere Michael tra le braccia – ha commentato il presidente Obama – Adesso però è il momento di ricucire questo strappo, è il momento di riportare pace e calma nelle strade di Ferguson», ha concluso il presidente cercando di placare gli spiriti. Che però non si sono calmati affatto. La rabbia è tanta ed è esplosa per le strade della cittadina del Missouri. Le parole del presidente giungono dopo quattro notti di scontri nel sobborgo di St. Louis dove i residenti, la maggior parte neri, sono scesi in strada per protestare contro l’assassinio del giovane nero da parte di un poliziotto bianco e hanno saccheggiato alcuni negozi della cittadina.Agli abitanti di Ferguson in strada si sono aggiunti quelli di Chicago, di Washington, di Los Angeles che hanno manifestato tutti con le mani alzate in segno di resa, come sembra abbia fatto il giovane Brown di fronte al poliziotto che invece l’ha freddato con diversi colpi di pistola. Spesso indossavano magliette con scritto don’t shoot (non sparate) o cartelli con scritto no justice, no peace (senza giustizia non c’è pace) o black lives matter (le vite dei neri contano).
Perché se anche non è chiara la dinamica del furto e se anche vi fosse stato un litigio tra il ragazzo e il proprietario del negozio il quale ha denunciato il furto di una scatola di sigari, ciò non giustifica la reazione eccessiva del poliziotto. Il corpo di polizia di Ferguson, in maggioranza bianco, apparentemente non è nuovo a dimostrazioni di forza contro i neri del quartiere. In più questa volta ha fornito con grande ritardo la spiegazione dei fatti che non sembrano convincere in pieno né i residenti, né la stampa. Infatti fino ad ieri non solo non si sapeva il nome del poliziotto che aveva ucciso il giovane nero per paura, è stato detto, che ci fossero delle rappresaglie da parte della gente infuriata scesa in piazza, ma erano stati arrestati e detenuti due giornalisti rispettivamente del Washington Post e dell’Huffington Post. Obama ha avuto parole durissime nei confronti delle azioni della polizia locale, affermando che «qui negli Stati Uniti d’America la polizia non dovrebbe commettere azioni di bullismo o arrestare giornalisti che semplicemente stanno tentando di fare il loro lavoro». Stavolta, quello che ha scatenato la rabbia popolare è proprio che la polizia di fronte ai tumulti di piazza ha fatto un uso eccessivo della forza. Quella che il Governatore del Missouri, Nixon, ha descritto come una «zona di guerra» infatti è divenuta tale anche perché la polizia ha fatto uso di maschere antigas, sparando proiettili di gomma e lacrimogeni. Si è presentata con tute mimetiche su mezzi pesanti, con armi da sommossa, accompagnata da tiratori scelti come se si trovasse davvero di fronte ad una grave ed estesa sommossa popolare. Tale dispiegamento di forza ha provocato la rabbia popolare innescando una miccia pericolosa. La giustificazione del sindaco della cittadina a questo comportamento è stata «un eccessivo stress e una illegalità di massa che avrebbe provocato la reazione delle forze dell’ordine». Giustificazione che, come si può capire, non ha convinto nessuno. Ma si sa, in queste situazioni c’è sempre una ridda di spiegazioni ed ogni parte lavora pro domo sua.
E questa volta, sembrano essere tutti d’accordo, si è esagerato. La polizia locale si è rifiutata di dare giustificazioni al massiccio e sproporzionato uso della forza sia nei confronti della popolazione che della stampa. Il fatto è che ormai da tempo, almeno da dopo l’11 settembre si discute sulla necessità da parte della polizia americana, di tutta la polizia da quella delle grandi città a quella dei piccoli centri, di essere armata fino ai denti. In più si deve segnalare che a Ferguson, episodi di intolleranza razziale si erano già manifestati in passato. Le due cose messe insieme vanno a formare una miscela esplosiva che prima o poi è destinata ad esplodere. In un editoriale sul Chicago Tribune del 14 agosto il premio Pulitzer Clarence Page, certo non sospetto di essere un estremista, si chiede come mai si continui ad armare la polizia e lo fa dimostrando, dati alla mano, che in tempi anche recenti piccole città continuano a spendere centinaia di migliaia di dollari dei contribuenti per arricchire gli arsenali delle forze dell’ordine. E argomenta che quando si comprano queste armi si è poi tentati di farne uso alla prima occasione anche se davvero non ce n’è necessità. E citando lo psicologo Abraham Maslow afferma che «se si ha un martello qualunque cosa tende ad apparire come un possibile chiodo». Plaude inoltre all’iniziativa del deputato democratico Hank Jackson il quale proporrà di diminuire la militarizzazione delle forze dell’ordine concludendo che la «polizia dovrebbe servire e proteggere la comunità e non occuparla».
Dunque ad un problema di uso eccessivo della forza, seguito all’11 settembre, si accompagnano pregiudizi razziali nei confronti dei neri che non hanno mai cessato di avere uno spazio sotterraneo nell’immaginario collettivo del paese. Paradossalmente si risvegliano proprio nell’era in cui un presidente nero è alla guida del paese. Il comportamento dell’ala conservatrice del partito repubblicano, quella per intenderci, guidata dai Tea Party, come più volte ho scritto sulle pagine di questo giornale, ne è una prova evidente. Pregiudizialmente boccia tutto quello che propone Obama anche provvedimenti che essa stessa aveva indicato. E dunque viene la tentazione di pensare che ci siano pregiudizi di carattere razziale. Ma anche questi non appaiono come l’espressione di una continuità con il passato. Ne sono invece uno sviluppo successivo e sono determinati proprio in conseguenza di quello che è stato realizzato dopo le lotte per i diritti civili degli anni ‘60.
È interessante tuttavia comprendere come la stampa italiana percepisce queste nuove, e ribadisco nuove, forme di pregiudizio razziale. Proprio alcuni giorni fa in un lungo articolo su una rivista italiana di primo piano scritto da un giornalista molto stimato che trattava proprio del razzismo in America ho avvertito una lettura che andava nella direzione di una continuità tra le vecchie forme di razzismo e queste nuove, viste semplicemente come delle propaggini del passato. Quello a cui assistiamo adesso invece è, sì, la riemersione di fantasmi sopiti che si risvegliano proprio a causa della presidenza Obama, ma operano in modo assai diverso da quelli del passato. Se non si notano queste differenze, si rischia di far passare in secondo piano proprio le peculiarità che fanno dell’America quello che è. E rivelano una sorta di atteggiamento doppio e un po’ ipocrita, abbastanza tipico di una certa sinistra, su un paese che è odiato per quello che fa e per quello che non fa, ma che continua a rimanere inconfessatamente un paesaggio dell’anima e dell’immaginario collettivo di tutto l’occidente. È vero che è complesso e complicato, ma proprio per questo bisogna analizzarlo con cura e affetto per apprezzarne realmente le peculiarità e imparare a combatterne le storture. Vale a dire ad esempio un paese dove è esistita la segregazione e dove c’è oggi un presidente nero che risveglia sì paure represse anche se con toni diversi dal passato, ma che sta facendo fare ai neri dei grandi passi in avanti non solo grazie ad un fatto psicologico che istilla sicurezza, facendo vivere loro anche una sorta di riscatto, ma che anche dal punto di vista pratico ha incoraggiato e incoraggia la formazione di una classe media nera di proporzioni considerevoli. E che si è adoperato e continua ad adoperarsi non solo per diminuire l’uso delle armi, ma per far crescere la convinzione che l’istruzione è un elemento fondamentale per avere una vita migliore e uscire dalle sacche di povertà e di emarginazione che ancora affliggono la comunità nera.
Michelle Obama è in prima fila non solo nel rafforzare questo obiettivo, ma anche nel creare abitudini alimentari e di vita che permettano ai neri di vivere una vita migliore e di uscire dai ghetti e dalla spirale della violenza e di subalternità delle gang che continuano e mietere quotidianamente vittime innocenti tra i neri di tutto il paese. Questo perché se è vero che il pregiudizio razziale è stata la vergogna di questo paese e riemerge oggi in forme più sottili, ma non meno pericolose a causa di un presidente nero che lo risveglia solo con la sua immagine e dove per combatterlo bisogna assorbire tutte le conquiste delle lotte per i diritti civili senza dimenticare il prezzo che queste sono costate, è anche vero che il loro valore di civiltà e di democrazia ha tuttavia cambiato il volto del paese. Dove accanto ai ghetti neri e a forme diverse di discriminazione esiste anche la possibilità di avere successo, di poter realizzare quel sogno americano che non ha mai smesso di animare le azioni e le speranze di tutte le etnie del paese e dove l’amore per questo paese ancora anima profondamente la comunità nera, perché lo sente suo. E dove dai neri che ce l’hanno fatta viene l’incoraggiamento e il supporto economico per superare la condizione di subalternità. Certo la lotta non è finita e l’impegno continua con forme e tempi diversi, senza essere meno incisiva. Ma il voler vedere una continuità con il passato significa vanificare quello che fino a qui è stato fatto. La strada è ancora lunga, ma le conquiste ottenute sono incredibili e marcano un punto di non ritorno al di là dei nuovi pregiudizi. Adesso lottare gli uni accanto agli altri per bianchi e neri sarà più facile proprio grazie a quello che è stato.