«Storia di chi fugge e di chi resta»
La metafora Napoli
Nel nuovo capitolo della sua trilogia sull'Italia dal Dopoguerra in poi, Elena Ferrante mette a nudo un problema centrare della nostra identità: l'ineluttabilità della diseguaglianza
Elena Ferrante mi ha conquistato fin da L’amore molesto, ma con L’amica geniale e Storia del nuovo cognome è entrata nel mio personale Pantheon letterario italiano. Con il terzo volume della trilogia, in attesa del quarto, Storia di chi fugge e di chi resta, (edizioni e/o 382 pagine, 19,50 Euro), ha consolidato la sua posizione. La facilità di scrittura, di comunicare sensazioni, far rivivere cose dimenticate e perse nei meandri della memoria sono sensazionali.
Inizia piano piano con la storia di due bambine nemiche-amiche, ma anche l’una complemento dell’altra, fin dalle scuole elementari, e si sviluppa e ci avviluppa fino all’età adulta in un crescendo di emozioni. Ci sembra di vivere, anzi di essere nati, nella periferia della Napoli del dopoguerra, nella Napoli di Lauro e della camorra, della violenza insita nella vita di tutti i giorni e nei pochi momenti belli che essa riserva. Ancor più forte è l’attrazione per chi non ha vissuto in quell’ambiente ma che ne è stato comunque contiguo per diversi motivi. Se si nasce in un paese, grande più o meno come un rione di Napoli o di Roma, si è comunque vicini per forza se non per scelta. Si è vicini al povero come al ricco, al proletariato come alla borghesia, che nei paesi non è mai illuminata. Si scoprono cose che non si immaginano, l’odore acre e fastidioso della povertà, quello che ti prende alla gola e ti provoca un senso di nausea che sei costretto a nascondere per non ferire il piccolo amico. Si scopre la cattiveria del figlio del dottore o della figlia della professoressa di francese. E si scopre come il mondo, anche in piccolo, sia diviso rigidamente in classi. Sperimenti sulla tua stessa pelle, o di chi ti è vicino, che “scalare” la società è più difficile di quanto si creda. Non basta studiare o fare i soldi, bisogna riuscire a comprendere i meccanismi per potersi integrare. E non è vero ciò che dice Erri De Luca sulla scuola pubblica: «…non aboliva la miseria, però tra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori», il dispari c’era e si vedeva dalla qualità dei grembiuli, dalla foggia dei fiocchi, dall’occhio di riguardo che gli insegnanti avevano verso i figli dei maggiorenti del paese/rione, dai libri nuovi e profumati rispetto a quelli avuti in eredità dai fratelli maggiori o rimediati in chi sa quale modo dai genitori meno abbienti.
E quindi ancor più forte è il coinvolgimento per chi nelle strade del rione rivede e ripercorre le strade della propria infanzia, adolescenza e gioventù. Quelle vie calcate in un perenne andare e venire perché altro non c’era da fare. Rione come un microcosmo che contiene già da subito tutte le sfaccettature della vita. Dalla rassegnazione al sapere che non si potrà mai andare via, alla voglia di fuggire verso un nuovo mondo che si pensa e si intravede al di là del tunnel. E, comunque, se ci si riesce ti lascia dentro sempre un senso di inadeguatezza, di insoddisfazione a cui non sai dare spiegazione. Di un qualcosa di cui dovrai sempre rendere conto anche se pensi che il tuo passato sia realmente passato.
Neanche Elena Ferrante ci fornisce questa spiegazione: perché è all’interno di noi. Ma è un po’ come la battuta di Corrado Guzzanti: «La risposta è dentro di te e comunque è sbagliata». È sbagliata perché non c’è risposta univoca alla vita e alle scelte, libere (se esistono) o indotte. Ognuno sa il perché di certe scelte, oppure crede di non saperle. Problemi insormontabili per chiunque, figuriamoci per le piccole donne che crescono nella periferia napoletana, strette nella morsa dell’ignoranza, della violenza, dei luoghi comuni. Nel maschilismo imperante, nella violenza giornaliera, quasi naturale, ereditata da migliaia di anni di persecuzione. Sì, è molto più difficile per una donna uscire dal proprio mondo per cercarne un altro non dico migliore ma semplicemente diverso.
E non basta fuggire, fisicamente o mentalmente, da ciò che il destino ci ha riservato. Ci sarà sempre un’anima buona che ci rammenterà, con malizia o ingenuamente, da quale parte del mondo si arriva, da quale cultura, o incultura, si è usciti. Se non si riesce a troncare con nettezza, con cattiveria e perseveranza certi legami, prima o poi si torna sul luogo del delitto. Delitto non commesso dai personaggi ma dalla società che ci circonda. L’emancipazione di una delle due protagoniste dovuta allo studio, alla presa di coscienza sociale e politica, indotta o meno che sia, siamo ormai negli anni ‘70, non la tengono lontana dall’invischiarsi di nuovo nelle dinamiche di quartiere. Così anche per la sua alter ego che ha compiuto la sua scelta rimanendo all’interno di quel settore di società che l’ha vista nascere e crescere. Entrambe devono scontrarsi con la violenza, i luoghi comuni, il maschilismo che all’epoca dei fatti narrati erano ben più forte di adesso. Le due protagoniste pagano le loro scelte l’una con un salto sociale che le viene, o lei pensa, ricordato in ogni occasione, anche quando, dopo aver scritto un libro si avvicina, per salvare la sua amica, al mondo operaio con più convinzione al punto di intraprendere una collaborazione con l’Unità. Il giornale in molte pagine è una presenza costante ed importante. E leggere di questo suo ruolo nei giorni in cui ha chiuso di nuovo per incapacità gestionale e politica fa veramente male. L’altra con decadenza fisica e sociale, se pure sia possibile, dopo essere stata anche invidiata per il buon matrimonio realizzato. Paga l’essersi schierata contro il suo uomo, contro gli uomini e la vita del rione. Paga la voglia di riscatto e la mancanza di subalternità verso i luoghi comuni. E a volte sembra, nell’ambivalenza del rapporto, scagliarsi contro l’amica, quella che fugge e che è poi la voce narrante di tutta l’opera di Elena Ferrante.
Bei libri, che dànno il piacere della lettura e del pensare. Personaggi tratteggiati con nitore, senza sbavature, che il lettore capisce in ogni loro intima piega e può immedesimarsi in ognuno di loro perché tutti hanno ragione e tutti, qualcuno molto più degli altri, hanno torto nell’affrontare la vita. La difficoltà dell’accettare i condizionamenti, le soperchierie, il già trovato fatto, gli errori generazionali e il lasciarsi vivere perché tanto è inutile schierasi contro chi è più forte. E poi Napoli nel suo divenire sempre uguale a se stesso. Con problemi antichi che non si risolvono ma si incistano, diventano purulenti e si trasmettono anche ai napoletani stessi come un marchio indelebile. Napoli come paradigma di situazioni che si riscontrano ovunque, che viviamo tutti i giorni.