Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

L’ultrà in doppiopetto

Il calcio italiano, in crisi di idee, etica e risultati, non sa come rinnovare i propri vertici. E litiga su un uomo rozzo e sventato, Carlo Tavecchio, che rispecchia in pieno la banalità del tifo (e delle società che lo sostengono)

Molto probabilmente Carlo Tavecchio non sarà il numero 1 della Federcalcio. O lo sarà per breve tempo. Lo scassato calcio italiano verrà affidato ad un commissario, il classico rimedio italico. Lo si capisce da quello che Giovanni Malagò, presidente del Coni, ha detto a Repubblica. Il responsabile dello sport italiano parla di un epilogo a sorpresa della corsa a presidente della federazione più potente, del fatto che l’uomo delle “banane”, cioè Tavecchio, ha troppe cambiali da pagare a chi lo sostiene (la bella coppia Lotito-Galliani, innanzitutto).

Malagò, dunque, ha deciso finalmente di battere un colpo. L’escamotage potrebbe essere quello di un deferimento di Tavecchio per la sua frase razzista e una probabile squalifica di 3-4 mesi. Uno scenario che potrebbe realizzarsi anche dopo l’elezione a presidente della Federcalcio, ammesso che Tavecchio non rinunci prima. Soluzione molto all’italiana e un po’ ridicola, se vogliamo, ma un modo per liberarsi di un personaggio imbarazzante e inadeguato.

Se negli Usa, paese preso a modello quando conviene da classe politica e manager italiani, il proprietario di un club di basket  dice pesanti frasi razziste sui giocatori neri, viene cacciato immediatamente a calci nel sedere. Se qualcosa del genere accade dalle nostre parti, ci vogliono settimane perché si prenda qualche iniziativa. Si è fatto un gran parlare di banane e di Optì Pobà con l’anziano signore di Ponte Lambro, Carlo Tavecchio appunto, ras del calcio minore, che continua a fare campagna elettorale, sentendosi anzi un perseguitato, una vittima che nemmeno Lee Oswald…

tifo razzistaIl nostro calcio si merita i Carlo Tavecchio. Anzi lui è il presidente ideale di questo calcio, lo rappresenta in pieno, è il simbolo della cultura e dell’ignoranza dell’ambiente. Dalle curve al Palazzo di via Allegri a Roma, sede delle Federcalcio. Lo sport italiano nel suo complesso è più avanti del calcio: l’atletica, il nuoto, il basket, il volley parlano linguaggi moderni, non alzano steccati, hanno aperto da tempo alla multietnicità. Il calcio mostra la faccia peggiore di un paese, quello carico di pregiudizi, rozzo, fascista. Tavecchio considera un giocatore dalla pelle scura venuto in Italia come uno che prima mangiava le banane. E che succede negli stadi ogni domenica? Quali cori si ascoltano e quali striscioni vengono esibiti? Dobbiamo o no chiudere, una settimana sì e una no, curve e altri settori degli stadi perché non solo ce la prendiamo con i neri ma anche con i napoletani, i calabresi, o i milanesi se l’insulto è urlato da Sud verso Nord? Come viene beccato Balotelli? Uno che se le va a cercare, in qualche caso. Ma c’è bisogno di dirgli «negro di m…»? C’è bisogno di fargli il verso della scimmia? Si continua a parlare di Daspo e di altri divieti confusi e impotenti, ma la violenza continua a spadroneggiare fino ad ammazzare. L’avversario di tifo è comunque da demolire.

Di che stupirsi, dunque? Tavecchio, anzi, ha la faccia bonaria di un leghista da capanna dello zio Tom, un Oronzo Canà della Brianza. Dopo la valanga di critiche ricevute, ha sciorinato tutte le opere buone che ha compiuto in Africa.

Ma non è tutta colpa di Tavecchio. È una questione culturale, il nostro Paese non sa ancora convivere con una società che è profondamente mutata, anche a causa di rigidità e buonismi di norme ma anche di atteggiamenti che, contrapponendosi, non aiutano. E il calcio è un settore della società italiana più retrograda. Il fallimento del pallone sta non solo nei risultati deludenti ma anche in questa sottocultura che continua ad imperversare. Siamo agli ultimi posti, come accade nell’economia o in altri settori.

prandelli buffoneSubito dopo la delusione di Prandelli & Co abbiamo letto che l’Italia è in fondo alla classifica in Europa per i giocatori che si sono formati nel club per cui giocano. In poche parole, solo 8 calciatori su 100 che stanno in serie A indossano la casacca del club in cui sono cresciuti. Lo ha scritto la Gazzetta dello Sport, dopo la débacle azzurra. Abbiamo cioè perso i talenti, non li coltiviamo più: i Baggio, i Pirlo, i Del Piero, i Totti sembrano fenomeni lontanissimi. Se i vivai funzionassero, troveremmo anche una moltitudine di ragazzini dalla pelle non esattamente bianca che sa tirare calci ad un pallone. Come accade nelle piccole società, sui campetti di erba sintetica, tra i dilettanti. Come si vede nelle scuole e nella vita di ogni giorno. Dove i piccoli Optì Pobà parlano romanesco, veneto o siciliano. Invece sono ancora pochi gli italiani nati da genitori non europei che si affacciano alla grande ribalta. Siamo fermi a Balotelli e a qualche altro. Nel frattempo, continuiamo a cercare fuori dai confini e i famelici procuratori ci propinano di tutto, anche dei bidoni, ma non perché hanno la pelle scura, come maldestramente sostiene il signor Tavecchio. Abbiamo vinto un Mondiale nel 2006, ma nelle ultime quattro edizioni della Champions siamo stato capaci di portare soltanto tre squadre ai quarti e ci siamo fermati; nell’ultima stagione avete visto come è finita; l’ultimo successo in Coppa Uefa, che ora di chiama Europa League, risale a prima dell’anno 2000; l’ultimo europeo U21 ce lo siamo presi dieci anni fa.

Demetrio AlbertiniChi ha organizzato e guidato il pallone in Italia ha avuto poche idee ed è stato attento soltanto a non perdere potere e soldi. E a litigare. Quasi come avviene in politica. Il nostro calcio non è così povero come si vuole far credere: Sky e Mediaset si dividono i diritti del campionato per il triennio 2015-2018 alla cifra di 943 milioni a stagione, 114 milioni in più rispetto al contratto che scadrà il prossimo anno. Sempre la Gazzetta, con Ruggiero Palombo, calcolava che quei 943 milioni diverranno circa 1100 milioni a stagione per vari altri rivoli: questa somma se la divideranno i 20 club della serie A. Non abbiamo gli sceicchi, però non siamo mica dei barboni. La legge Bosman permette alle società di mettere in campo tutti gli stranieri che vogliono. Ma il problema nostro nasce da come spendiamo questi soldi, non soltanto dal numero di stranieri. Sempre più frequentemente andiamo a prendere giocatori che valgono e costano poco ma che vengono sopravvalutati ad arte per maneggi e maneggioni. Così i bilanci restano in rosso.

Il pallone sgonfio è pieno di questi paradossi. Avrebbe bisogno di essere rivoltato come un pedalino e di gente capace di ribaltare le vecchie gerarchie e di organizzare su basi serie e moderne l’enorme business. Ma alla fine ci ritroviamo con Tavecchio o Albertini (che ha condiviso la fallimentare esperienza di Abete).

Arriverà dunque un commissario? Sarà lo stesso Malagò, sarà qualche altro? Ma dopo, che succederà?

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