Rebora raccontato da Gianfranco Lauretano
L’anima a nudo
Una scrupolosa monografia sul sacerdote lombardo mette l'accento su un’esperienza poetica attualissima, eterodossa, sbalorditivamente sincera
Clemente Rebora, una delle personalità letterarie più rilevanti e controverse del primo Novecento italiano è oggetto della preziosa disamina del critico e poeta Gianfranco Lauretano (Incontri con Clemente Rebora, Rizzoli, 179 pagine, 10,50 euro). Il senso di una monografia così scrupolosa sul presbitero lombardo risiede senz’altro nell’attualità della sua parola poetica «lussureggiante» e al contempo «pietrosa», orientata in un contesto presente di scarnificazione dei contenuti, nel quale la melodia del verbo può ancora aggiungere semenza vivificante al campo arido del modernità.
Rebora fu maestro di anonimati: si tenne lontano da qualsiasi oclocrazia del verso in chiave soggettiva, rivendicando la bellezza del canto “spaesato”, slegato dall’Io e sventure dell’Io, in un certo senso “generoso” nel donarsi a una verità più equilibrata e realistica dei personali isterismi lirici del tempo. Seppe guardare all’esecuzione divina della poesia, piuttosto che al divin esecutore serrato nella persona del poeta; un sacerdozio, dunque, non “artistico” nel significato attribuitogli dalla décandence, che lo addusse alla conquista dell’«annullamento del sé nel destino, in un orizzonte ampio non individuale».
«Quanto anonimato nella sua vita e nella sua opera! Quanta cancellazione dell’io e di ogni forma di affermazione dell’ego! La parola giunge addirittura a designare la sua seconda raccolta, i Canti anonimi, forse la più limpida e folgorante, quella posta sulla soglia tra la fase “laica” e la cancellazione di sé nel ritmo regolato e nascosto della sua vita dopo che, convertitosi alla fede cattolica, abbracciò il percorso sacerdotale». A capo della ricerca del poeta sopraggiunge un’esigenza di verità superiore che si afferma dapprima nel processo creativo come spia di un disagio interiore, poi in quello esistenziale. Tale esigenza è proprio la cifra del suo versificare: aspro e florido, acre e rigoglioso, di continuo immerso nella conflittualità del duplice elemento che rivela apoditticamente l’animo dilaniato.
«La poesia di Rebora imita non tanto la vita materiale, ma il movimento interiore, l’anima che, comprendendo se stessa e il mondo, avanza sbattendo in contraddizioni, complessità, mistero. Questa è la stoffa della parola poetica, che è parola complessa, in cui agiscono assieme numerosi i suoni, il ritmo, il senso, la connessione con gli altri termini che amplifica e precisa il significato formando anche componimenti, strofe, ritornelli… Per questo, per somiglianza, essa è lo strumento più adatto a cogliere l’intima, articolata e intensa dinamica del mondo». Il canto assume il sembiante di un movimento emozionale proteso alla scoperta del mondo: esso è prima di tutto conoscenza delle cose, fedele testimone degli incanti e delle tare da cui non si discosta issando il vessillo della deificazione, ma permane in quella “onestà” (umiltà?) verso l’esistenza già decantata da Umberto Saba.
«La poesia in sé, l’arte per l’arte che tanto ha scorrazzato nelle poetiche dell’Otto-Novecento, per il nostro poeta non hanno senso. La poesia non è buona in sé: è cagnara, malizia e tristezza come il resto del mondo su cui vorrebbe tacere. Essa sta cioè dentro il movimento del mondo, partecipa della sua bellezza e delle sue miserie, le assume e ne è cambiata». Lauretano sottolinea con acutezza il dramma dell’uomo incagliato nei paesi bassi di una non piena comprensione, eppure ancora aperto alla misura del cambiamento. È in questo “aperto” che si consuma e si spalanca il suo lungo percorso spirituale: dalla kierkegaardiana angoscia del Nulla e dei suoi spettri Rebora perviene a una radicale conversione al cattolicesimo che non esclude l’attività artistica, anzi la promuove come luogo d’incontro privilegiato con l’Altro. «Poesia e santità definisce il rapporto tra fede e poesia con preminenza della prima: “vita che l’amor produce in pianto,/ e, se anela, quaggiù è poesia;/ ma santità soltanto compie il canto”. Un passaggio che ci fa comprendere quanto Rebora sia eterodosso rispetto a un Novecento poetico italiano in cui «soltanto il canto compie», per parafrasarlo. L’autonomia dell’arte e della poesia, la superiorità del sentire dei poeti e la “purezza” della loro parola sono implicitamente criticati dalla concezione di Rebora che davvero, in questo, percorre una strada completamente originale e personale».
Attraverso i luoghi intimi della coscienza e dell’ispirazione, forte di una scrittura non asettica, passionale ma sempre calata nel duro lavorio dell’obiettività, Lauretano mostra al lettore l’anima a nudo di un autore sbalorditivamente sincero, che non fu vittima di alcuna moda se non quella che il suo cuore suggeriva. E la poesia dettava di dentro.