Fabio Ciriachi
Racconti del peccato/11

Un itinerario imprevisto

Valeria si disse che probabilmente la signorina Carau stava parlando al telefono, e si augurò che non fosse un’abitudine notturna. Chiuse gli occhi mentre sentiva dire «Adesso basta, esageri, ma non ti vergogni proprio?»

Tutto le pareva instabile per la traversata che continuava a muoversi in lei anche adesso che era scesa dal traghetto e sedeva nella corriera blu delle autolinee sarde. Salito l’ultimo passeggero, l’autista si era sistemato al posto di guida e il porto di Olbia aveva preso ad allontanarsi. Il cielo volgeva a un brutto dai molti grigi, e l’entroterra ancora non estivo cominciava a truccarsi da Africa somigliandole sempre più.

A Valeria piaceva viaggiare da sola sui mezzi pubblici, scendere a metà strada, se qualcosa la convinceva a farlo, perdersi dietro la suggestione di un itinerario imprevisto. Assieme a Bernardo non era possibile. Troppo preso a guidare prefigurando il dopo, sempre il dopo: «quando siamo a casa mentre io sistemo i bagagli tu vai a comprare il pesce, poi alla spiaggia cerchiamo di capire dove si affittano barche», gomito sul finestrino e occhi a scattare tra strada e retrovisore, progettava buona parte del da fare rendendolo subito come già fatto. Ma stavolta era partita sola; poche cose nel trolley, un paio di libri e le stampate con gli orari di traghetti e corriere per orientarsi negli imprevisti.

La casa della signorina Carau non somigliava alle foto viste nel sito “Vacanze Sarde” dove Valeria l’aveva scelta, anche se l’infedeltà in fondo non le dispiaceva, soprattutto per quel mostrarsi meno casa-vacanze e più casa e basta, piazzata com’era un po’ lontano dalla provinciale, tra il verde folto di un rilievo appena fuori Padria, un nome così bello, per lei che di suo padre conservava ancora, in sé, foto incorniciate.

La casa stava al centro di un giardino le cui inferriate erano avvolte da una rete a maglie strette. Qua e là gironzolavano gatti e piccoli cani che al suo ingresso non la degnarono di uno sguardo. «Chiuda il cancello, per favore» la esortò dall’uscio la signorina Carau forzando la voce sugli acuti.

L’immagine giovanile che Valeria s’era fatta di lei, da lontano, perse consistenza nel corso dell’avvicinamento, e quando la salutò – davanti al portoncino d’ingresso, dove la signorina l’aspettava sorridente – si accorse di stringere la mano a una stropicciata ultrasessantenne in pantaloni e camicia bianchi di una tale giovanile leggiadria che lei, coi suoi quarant’anni, non avrebbe osato indossare. La voce, mentre le chiedeva notizie del viaggio, sembrava uscire da un cartone animato per quanto torceva il tono adulto in timbri esageratamente infantili.

La camera rispondeva in pieno alle sue necessità: un porto da dove muovere e dove ritornare per ricognizioni che ancora non aveva stabilito in dettaglio, e che avrebbero potuto portarla a sud, verso quella Carloforte di cui aveva sentito favoleggiare, oppure a nord, verso Stintino, da dove poteva raggiungere l’Asinara che in quella stagione sembrava stendesse tappeti di gigli selvatici fin dentro l’acqua.

Vuotò la valigia e ne dispose il contenuto nel profumo alla mela verde dell’armadio, fece una doccia sgomitando contro l’esiguità della cabina, infine uscì in giardino con un libro tra le mani e ritrovò subito il sedile all’ombra intravisto poco prima. I cani guaivano piano scodinzolando lungo la recinzione oltre la quale alcuni randagi abbaiavano agitati. Anche i gatti parevano presi da una smania che rendeva inquietanti i loro sommessi miagolii, l’intimo gorgogliare al quale a tratti si abbandonavano. Alzati gli occhi dalla pagine del libro, Valeria notò con quanta partecipe apprensione la signorina Carau abbracciasse a sguardi i suoi animali da una finestra del primo piano. Pareva che in quel niente di guaiti e miagolii, di andirivieni senz’altro costrutto che passare da un lato all’altro del giardino, fossero contenuti motivi, per lei, di profonda pena. Solo allora si ricordò dell’invito a chiudere il cancello, e si rese conto che la rete attorno al recinto serviva a tenere reclusi gli animali.

Di notte fu svegliata da una voce acuta che non faticò a riconoscere. Il chiaro del lampione esterno svelava le forme del buio attraverso le stecche della persiana, e senza dover accendere la luce poté rimanere in ascolto di quella che sembrava una estenuata resa dei conti. «Non vorrai mica fare quelle cosacce, eh?» diceva la signorina Carau in un tono da brividi. «Sei così piccola che non sopravvivresti a tanta brutalità». E dopo un lungo silenzio «Ma guarda se ti devi ridurre in queste condizioni».

Poiché non udiva risposte, Valeria si disse che probabilmente la signorina Carau stava parlando al telefono, e si augurò che non fosse un’abitudine notturna. Chiuse gli occhi mentre sentiva dire «Adesso basta, esageri, ma non ti vergogni proprio?» e nel silenzio che seguì le parve che se quella voce si fosse placata solo un attimo lei avrebbe ritrovato il sonno, e magari anche qualcosa dei sogni.

Al mattino Valeria sorseggiava il caffè affacciata alla finestra di cucina, gli occhi a seguire il profilo degli alberi contro un azzurro così luminoso da invogliarla a mettersi subito in viaggio. Pensava all’itinerario del giorno quando una voce acuta la distolse. «Sai che sei proprio una sporcacciona, e tu non credere di essere da meno» sentì dire oltre un cespuglio di fiori gialli sulla destra del giardino. Guardò meglio e vide la bianca sagoma della signorina Carau, ricurva, le mani verso terra. «Meriteresti proprio una bella punizione, svergognata» disse ancora con un pathos che rendeva drammatico quel piccolo paradiso. La vide raddrizzarsi e muovere verso casa lasciando dietro il cespuglio un groppo di miagolii e di guaiti dimessi. Entrò in cucina con aria contrariata. «È un disastro, sono tutte in calore! – disse – ma non le voglio far operare, poverine, è talmente contro natura!» e mentre usciva scuotendo la testa rivolse uno sguardo così disperato che rese tragico il suo trucco giovanile.

Valeria la vide allontanarsi rigida, nei pantaloni a vita bassa, la testa insaccata nelle spalle a mo’ di corazza, i gomiti puntuti; riandò alle parole che l’avevano svegliata in piena notte, e di colpo capì. Come in un film d’animazione frammenti vorticano estranei l’uno all’altro per poi, di colpo, correre a comporsi in qualcosa di riconoscibile, immaginò l’intera vita di quella sconosciuta prendere forma davanti ai suoi occhi. Intuì, con la certezza delle folgorazioni, la verginità di cui ancora doveva portare il peso, il tempo interminabile delle passioni e delle rinunce amorose sopportate, ed ebbe voglia di accollarsi una parte di quella tremenda fatica. Le sembrava che alla signorina Carau importasse soprattutto rievocare i propri calvari e che, per questo, si fosse circondata delle femmine di animali domestici alle quali infliggere le medesime privazioni riservate a se stessa per anni e anni. Non le sterilizzava non per rispetto della natura ma per vederle tormentarsi, a loro volta, in un’afflizione che doveva conoscere bene; oltre a rimproverarle giorno e notte, e convincerle, come ancora cercava di fare con sé, quanto insensato e sconveniente fosse abbandonarsi a certi deprecabili istinti.

Il sole accentuava la bellezza appartata del paesaggio, ma Valeria ormai non ci faceva più caso. Nello spazio sconosciuto che le si era aperto davanti non c’era luce, né quel pazientare delle cose che rende lenti e in apparenza immobili i dettagli della terra antica. Chiusa a sua volta in un giardino inespugnabile, come davanti all’apertura di una grotta interrogava l’umido di profondità per i cui meandri non si sentiva attrezzata. Il conflitto fra bellezza e dolore si fece stridente. Poi le parve che ci fosse anche qualcosa di proprio, in quel sofferto buio altrui davanti al quale indugiava; allora l’amore per gli itinerari imprevisti la convinse, e senza quasi rendersene conto si trovò sprofondata nell’oscurità con la sua sola inesperienza di speleologa a indicarle la strada.

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fabio ciriachiFabio Ciriachi, romano, ha pubblicato poesie: L’arte di chiamare con un filo di voce (Empiria, 1999), Il giardino urbano (Empiria, 2003), Pastorizia (Empiria, 2011); racconti: Azzurro-cielo e verde-pistacchio (Edimond, 2008); romanzi, Soprassotto (Palomar, 2008), L’eroe del giorno (Gaffi, 2010), premio “Passioni” 2010, Le condizioni della luce (Gaffi, 2013). Ha tradotto dal francese l’opera di David Mus Qu’alors on ne se souviendra plus de la Mer Rouge (Ragage-Empiria, 2005). Ha recensito libri per la Repubblicail Manifestol’Unità.

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